Un terzo della musica italiana in radio? La realtà dice che siamo già al 50%
Una proposta di legge del Presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera Alessandro Morelli, ex direttore di Radio Padania, ha fatto molto discutere nel weekend scorso. Il leghista, infatti, ha proposto una ricetta per dare più spazio alla musica italiana nelle radio, ponendosi come obiettivo quello di dedicare "almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione". La proposta arriva in un momento particolare, ovvero a ridosso di una serie di polemiche che hanno coinvolto il Festival di Sanremo vinto da Mahmood, il ragazzo milanese che si è imposto con la canzone "Soldi" prodotta da Dario Faini e Charlie Charles. Chissà se proprio il nome di quest'ultimo, sommato a quello di Mahmood, ha portato Morelli ha dichiarare: "La vittoria di Mahmood all'Ariston dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica […] Io preferisco aiutare gli artisti e i produttori del nostro Paese attraverso gli strumenti che ho come parlamentare".
Quale musica ascoltiamo in Italia
Ma quanta musica italiana ascoltiamo in Italia? Bene, se è vero che l'Italia ha ancora qualche problema per quanto riguarda la trasparenza dei dati (basti sapere che, a differenza degli Usa, ad esempio, non esiste un dato di vendita settimanale della musica italiana) è anche vero che un'idea generale, almeno sui grandi numeri, possiamo farcela. Nel 2018 la canzone più trasmessa dalle principali radio italiane (i dati sono quelli di EarOne) è stata "Non ti dico no" dei Boomdabash e Loredana Bertè che ha diviso il podio anche con Luca Carboni e la sua "Una grande festa", due dei quattro titoli su sei nella Top 10 (9 su 20 nella top 20) che si trasforma in un perfetto 50% per quanto riguarda la top 100: 50 pezzi italiani e 50 pezzi stranieri in totale. Insomma, quando si parla di passaggi radio, quelli principali, gli italiani si difendono anche oltre la percentuale richiesta dalla politica. Radio a parte, se si prova a dare uno sguardo al consumo degli italiani, prendendo in considerazione, ad esempio, la classifica FIMI dei singoli del 2018 si vede come al popolo piacciano le canzoni italiane, con 7 artisti nella top 10 e 15 nella top 20 (classifica che include fisico, digitale e streaming premium). La percentuale sale ancora di più se, invece, contiamo le classifiche degli album che da anni vedono gli italiani fare la parte del leone: sono pochissimi, infatti, gli album di artisti stranieri che arrivano costantemente nelle posizioni alte della top 10 e dal 2000 a oggi solo due album hanno chiuso l'anno come i più venduti, ovvero "One" dei Beatles nel 2000 e "÷" di Ed Sheeran nel 2017, mentre lo scorso anno il più venduto è stato Sfera Ebbasta con "Rockstar" con 9 album italiani tra i primi 10 (e il solito Sheeran al decimo posto).
Mahmood è italiano e anche Charlie Charles
Ovviamente, è superfluo sottolineare come sia il vincitore del festival che il produttore sono italianissimi, con Charlie Charles che è di Settimo Milanese, si chiama Paolo Alberto Monachetti e da anni ormai è uno dei più richiesti per quanto riguarda la nuova scena trap italiana, così come è normale chiedersi che fine farebbero, ad esempio, le canzoni di Jovanotti prodotte da Rick Rubin e quelle di Tiziano Ferro prodotte da Timbaland e registrate negli Usa. I deputati firmatari della proposta di legge "disposizioni in materia di programmazione radiofonica della produzione musicale italiana", ovvero Maccanti, Capitanio, Cecchetti, Donina, Fogliani, Giacometti, Tombolato e Zordan, chiedono di "introdurre una quota minima obbligatoria di repertorio musicale italiano che le emittenti radiofoniche (nazionali e private) sono tenute a trasmettere" citando la Legge Toubon, una legge francese, votata nel 1994, e prende il nome dall'allora Ministro della Cultura, che ha un respiro più ampio di quello musicale che mirava a salvaguardare la lingua francese (sic) in vari ambiti e che, tra le altre cose, obbligava le radio a passare il 40% di musica in francese nell'airplay giornaliero.
La Legge Toubon e le problematiche del 40%
Quello che i deputati non dicono o semplificano sono le complessità che queste quote hanno portato in Francia e le discussioni nate, oltre ovviamente alla ricerca di metodi per aggirare la regola. In un articolo di Le Monde intitolato "Comprendere le quote delle canzoni francesi alla radio" si legge che "il cuore del problema si pone, per i sindacati e le società d'autori e produzioni, in quello che è l'aggiramento di queste regole da parte delle radio che programmano costantemente gli stessi pezzi per riempire le quote" e si cita un rapporto che prendeva ad esempio alcune radio come NRJ o Skyrock che passavano in continuazione solo pochi pezzi francesi, abbattendo la diversità e la promozione che era alla base della regola, al punto che l'Osservatorio della musica riportava che "un gran numero di radio hanno più del 50% dei loro titoli in comune. Questo grado di comunanza della top 40 tra determinate stazioni è massiccio, alcune stazioni hanno molti dei titoli della Top 40 in comune rispetto alla maggior parte delle radio musicali e a volte, caso non eccezionale, la totalità di quei titoli". Insomma, fatta la regola trovato l'inganno e a pagarne le spese sarebbero sempre artisti e ascoltatori. Nel 1994, poi, come riporta France Tv nelle classifiche di vendita dei singoli c'erano solo sette titoli francesi su 50.
Inutili le barriere musicali
Mettere barriere musicali – citando una legge applicata in un Paese che ha un altro contesto sociale e culturale, nata con un'idea molto più ampia e non limitato alla musica ed entrata in vigore in un periodo pre internet -, in un mondo sempre più globale e on demand rischia di essere un danno per le radio e anche per chi le ascolta. Chiariamoci, nessuno nega che sia importante far sì che artisti giovani e italiani possano far sentire la propria musica, ma imporre il gusto da parte della Politica potrebbe essere quantomeno una forzatura soprattutto in un momento in cui lo streaming fa sempre di più la parte del leone con Youtube e Spotify che sono tra le piattaforme più utilizzate per ascoltare musica, classifiche che non parlano di calo di ascolto della musica italiana e e in una realtà più complessa di quella manichea che la Politica vuole descriverci. Basterebbe affondare un po' più la testa nel campo musicale e non farlo solo quando c'è un eventuale ritorno "polemico", basterebbe ascoltarle le radio, guardare qualche dato, o semplicemente vivere il più possibile alcune realtà per rendersi conto che esiste un mondo più ampio del nostro e molto più complesso da maneggiare. E sarebbe il caso di maneggiarlo con cura più che con qualche slogan.