Grossomodo un quarto di secolo dopo i CCCP-Fedeli alla linea di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, un’altra band italiana si è battezzata con un nome evocativo della vecchia URSS, il gigante euroasiatico che per alcuni decenni ha conteso agli USA la leadership del pianeta, ma è inutile cercare nella proposta dei Soviet Soviet proclami filopolitici o esplicite provocazioni socio-culturali. Il trio costituito da Alessandro Costantini (chitarra), Andrea Giometti (basso e voce) e Alessandro Ferri (batteria) si riallaccia infatti al classico post-punk britannico della prima metà degli anni ‘80 e, ribadendo ulteriormente la propria internazionalità, si è legato a un’etichetta di New York, la Felte Records. Con questo marchio, il prossimo 11 novembre, sarà pubblicato “Fate”, album che segue l’EP “Summer, Jesus” di due anni fa e altre uscite minori/artigianali che hanno suscitato curiosità e raccolto consensi non solo nel circuito underground autoctono ma anche all’estero: non a caso il gruppo ha potuto suonare piuttosto spesso fuori dai nostri confini, spingendosi persino in luoghi non proprio usuali come l’Europa dell’Est e il Messico.
Dopo un lustro di training, seppur di alto livello, per i ragazzi è ora giunto il momento di spingere sull’acceleratore, provando a conquistare un autentico posto al sole: “sole” in senso figurato, naturalmente, perché la musica dei Soviet Soviet preferisce eludere la luce e immergersi nelle atmosfere cupe, solenni, epiche e più o meno sottilmente inquietanti inventate illo tempore da compagini giustamente storiche quali Bauhaus (il riferimento forse più evidente), Cure, Joy Division o Sisters Of Mercy. Edificati su ritmi ossessivi e metronomici, chitarre ora ruvide e ora aggraziate e voce enfatica la cui glacialità sa stemperarsi in non meno suggestive, perverse dolcezze, i quasi trentacinque minuti di “Fate” – “Destino”: un titolo a dir poco imponente – hanno ciò che occorre per colpire i cultori di quello che qui da noi è di norma definito “dark”: forza d’impatto fisico ed emotivo, melodie persuasive, songwriting che non si fa problemi ad attingere a piene mani nel vasto serbatoio delle radici del genere ma che al contempo miscela il tutto con perizia e gusto, riuscendo addirittura a soffocare l’impressione del ricalco sfacciato dei vari maestri. Inoltre, va sottolineato, i dieci brani vantano qualità ed efficacia non comuni, rafforzando la convinzione di avere a che fare con artisti dotati di qualcosa di più di semplici capacità emulative. Un po’ come si è detto settimane fa degli His Electro Blue Voice, affini (almeno in parte) nelle influenze e nel percorso professionale, compreso l’approdo discografico oltreoceano.
D’accordo, taluni potrebbero avanzare delle riserve e tirare in ballo la solita questione del revival, osservando per di più che si tratterebbe di un “revival del revival” dato che il post-punk di trent’anni fa è stato già ampiamente recuperato e riadattato all’alba dei Duemila (per limitarsi a un unico esempio, dice nulla il nome Interpol?). La verità, però, è che determinati stili, proprio come r’n’r, blues, garage o psichedelia, sono ormai qualificabili come “classici”, e non ha dunque senso trattarli alla stregua di fenomeni passeggeri da riscoprire periodicamente. Dei Soviet Soviet, oltre la bontà delle canzoni e del suono, piacciono la genuina passione e l’apparente assenza di quella seriosità che se da un lato conferiva ai progenitori degli ‘80, per dirla con Battiato, un’aura di “carisma e sintomatico mistero”, dall’altro legittimava accuse di snobismo se non di artificio. Si fossero ritenuti austeri sacerdoti del “gothic”, i nostri giovani marchigiani non si sarebbero mai cimentati, accantonando per giunta l’amato inglese, con la cover de “Il grande incubo” degli 883, trasfigurata per l’album-tributo “Con due deca”. Tanto di cappello per il coraggio e l’autoironia, e sinceri auguri di arrivare lontano.