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Nayt presenta Habitat: “Sono cresciuto in un ambiente omofobo, ora ho gli strumenti per riconoscerlo”

Nayt, nome d’arte di William Mezzanotte, ha pubblicato il suo ultimo album Habitat lo scorso 16 giugno, chiudendo una trilogia composta da Mood e Doom. Qui l’intervista all’autore romano.
A cura di Vincenzo Nasto
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Nayt 2023, foto di Comunicato Stampa
Nayt 2023, foto di Comunicato Stampa

Habitat, il nuovo disco di Nayt, è stato pubblicato lo scorso 16 giugno. Un album che chiude la trilogia legata a Mood e Doom, e che nel processo di analisi musicale e narrativa, si allontana anche da William Mezzanotte, il vero nome dell'artista, e si avvicina alla visione d'insieme, di collettività. Il progetto, che ha debuttato al secondo posto della classifica Fimi degli album più venduti e primo tra i vinili, è stato accompagnato anche da un cortometraggio, una presentazione del concept di Habitat, che vede lo stesso Nayt in veste di attore. 13 tracce, nessuna collaborazione tranne quella del suo producer 3D e di Orang3 in wertigini, dopo aver lavorato già insieme in Sorpresa, contenuto nel precedente Doom. Qui l'intervista a Nayt.

Quando nasce il titolo Habitat e qual è stata la riflessione che ti ha portato alla realizzazione del disco?

È un concetto che nasce da quando avevo 19 anni, è una parola che mi è risuonata in testa da allora. Credo sia una parola chiave per poter descrivere più concetti, ma ho aspettato qualche anno per poterlo realizzare. Volevo farlo al meglio, con più strumenti e più possibilità rispetto al passato.

Qual è il filo rosso che collega Habitat a Mood e Doom?

Ho imparato in questi anni che è difficile aiutare gli altri quando non si è in grado di aiutare se stessi. Può sembrare strano, almeno detto così, ma credo sia un atto di egoismo. Quello che fai potrebbe essere dettato dall'ambiente esterno, dai tuoi bisogni, e appena cambia il vento, cambia anche la direzione. In Habitat, come in Mood e Doom, c'è questa presa di coscienza che mi permette di conoscermi, aiutarmi e incominciare a parlare agli altri.

Un'apertura alla collettività?

È un processo che in Habitat è molto più visibile, anche se c'era già qualche segnale nei dischi precedenti. Ho preso questa direzione anche dopo aver preso coscienza di danni esistenziali e sociali, di cui adesso, dopo essermi informato, posso parlare.

Quali sono gli strumenti che ti hanno permesso, rispetto al passato, di lavorare a un album come Habitat?

Non è semplice catalogarli e non vorrei lanciare solo titoli, senza contestualizzarli. Sicuramente per me è stata importante la lettura di alcune opere di Gurdjieff (Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo e scrittore armeno), ma anche di Alexander Lowen, un grande psicoterapeuta. Sto acquisendo strumenti di cultura generale, sociale, psicologica, ma anche economica e storica.

Una ricerca dettata dal bisogno di una maggiore comprensione di determinati fenomeni? 

Io provengo da un'adolescenza vissuta in un ambiente molto ignorante, non sono mai stato uno che ha studiato tanto perché ho sofferto tanto l'imposizione delle istituzioni, ma soprattutto il modo in cui venivo obbligato da un sistema antiquato, che non riconosce e non riconosceva la mia generazione.

Credi ci sia tutt'ora questo problema?

Molti ragazzi sensibili non riescono a relazionarsi alle istituzioni scolastiche. Per questo, appena sono cresciuto, tolta la costrizione, sono riuscito a interessarmi in prima persona ad alcuni temi e ad approfondirli, a trattarli meglio.

L'istruzione è uno dei temi che riprendi più spesso nel disco, come in Cazzi miei in cui canti: "Questi ragazzi non sanno cos'è rispetto e educazione, quindi a scuola useranno lo spettro dell'umiliazione. Al Ministero dell'Istruzione si aggiunge pure il merito, che la vita non sa di niente senza competizione".

Cosa c'entra l'istruzione con la competizione? Secondo me nulla. Rendiamo invisibili aspetti come l'istruirsi, la possibilità di imparare a conoscersi e crescere insieme. Con la competizione invece allontaniamo tutto da tutti: ho notato quest'aspetto quando invece di fare progetti in collaborazione a scuola, l'obiettivo era fare il proprio compito e prendere il voto più alto degli altri. Il sistema è improntato su questo processo, sull'individualismo e sul culto del risultato, mica della collettività.

Qual è, secondo te, il risultato di questa operazione?

Distaccarsi viene tradotto in non ricevere un riconoscimento, che ci può essere dato solo dagli altri. Se io non sono in grado di ascoltare e vedere gli altri, come posso essere in grado di ascoltare me stesso? Non so quale aspetto positivo dovrebbe avere quest'attitudine competitiva. Alcune volte ascolto e leggo interviste ai protagonisti del mondo della politica sull'istruzione e mi domando se si rendono conto della realtà. C'è un distacco visibile e chi ne soffre siamo proprio noi.

Come stai vivendo questo distacco?

Ho molta paura, per questo resto attaccato alle persone che conosco da sempre, alla realtà che ho sempre vissuto.

Com'è stato il processo che ti ha portato a questo nuovo tipo di consapevolezza, anche della tua sensibilità emotiva?

È stato difficile ricostruire pezzo per pezzo, aprire e sbloccare porticine piano piano. Io mi sento molto ignorante su tanti temi che leggo e che mi capitano davanti. Per questo cerco di studiare, rimanere aggiornato sull'attualità. Alcune volte ho difficoltà a riconoscere la verità: sarà frutto dell'epoca della disinformazione o della troppa informazione. Tentare di far qualcosa è difficile, anche perché alcune volte è difficile capire di cosa si sta parlando realmente: e poiché è faticoso capire, c'è bisogno di sforzarsi. È questo lo scontro con la mia sensibilità che mi permette di crescere. In passato mi sono allontanato dall'educazione allo studio e quindi oggi devo lavorare più duramente per comprendere pienamente determinate cose.

Ritorno ad Habitat, ma in generale alla tua musica, a tutto ciò che hai prodotto finora. Che segno pensi di aver lasciato nelle persone finora?

Penso di star mettendo, tutt'ora, delle basi e di star tracciando una mappa per gli altri, sia nel presente, che nel futuro, per le nuove generazioni. È la mia intenzione, un mio desiderio, legato anche e soprattutto a ciò che scrivo. La maggior parte dei complimenti che ricevo sono legati al fatto che riesco ad esprimere delle cose che sento e che sentono anche gli altri, ma non riescono a tradurle in pensieri o parole. Un vocabolario per la nostra sensibilità, per poter dire a noi stessi: ecco, questo è ciò che sento. Però prima ho bisogno di avere gli strumenti e la conoscenza per poter parlare di certi temi, per poter semplificarli e metterli a disposizione di tutti.

Una scrittura aperta a un pubblico il più ampio possibile.

Io scrivo in maniera semplice, anche se ho una tecnica complessa. Utilizzo vocaboli molto diretti, lontani da alcuni libri che sto leggendo, che sono veramente tosti da decifrare e tradurre in un linguaggio più semplice. Non voglio diventare noioso: la noia è una delle prime nemiche della cultura.

In questo dizionario della sensibilità emotiva che hai cercato di aggiornare con questa trilogia, alcune delle figure centrali sono la donna, ma anche il tuo lato femminile. Com'è cambiato il tuo punto di osservazione?

Cerco di allargare la mia comprensione, anche se sono un maschio etero e quindi, in campo affettivo, mi sono relazionato solo con donne. Nel mio caso, penso che i traumi e le ferite che hai avuto specialmente da piccolo, e che non sono state curate, a un certo punto affiorano. Poi c'è un racconto della società che altera sia la visione della donna per l'uomo, ma anche viceversa: descriviamo anche le relazioni non in modo realistico. In questo momento, dopo tanto lavoro, sto riuscendo a vedere l'altra persona, anche il femminile che è in me, e a giudicarlo in maniera più libera. Sono cresciuto in un ambiente omofobo e da adolescente, come tanti ragazzi nelle mie condizioni, lo sono stato.

Come ti sei interfacciato le prime volte a questo tipo di emozioni, come la paura?

Sono cresciuto in un quartiere in cui c'era paura: quando parlo di omofobia, parlo proprio della paura di ciò che non conoscevo. Poi c'era la rabbia e l'ignoranza, mentre adesso riusciamo a riconoscere: è proprio quella la parola chiave.

Hai ripetuto in più interviste che Habitat non è un disco accomodante: credi che in questo momento la musica rap lo sia diventata in Italia?

Quando il mercato si appropria di una cultura o di un'arte, lo assoggetta alle proprie regole. Per questo credo che il mio disco non sia accomodante, perché non va incontro al pubblico, ma anche perché credo che l'arte non sia sinonimo di facilità. L'artista è l'antitesi dell'intrattenimento e della figura dell'intrattenitore. Se il secondo ti distrae dall'abisso, il primo si ci fionda dentro e ti riporta quello che ha visto.

Qual è invece il potenziale sociale e culturale di questa musica in Italia?

Dovrebbe far riflettere, attuare dei processi emotivi per cui ci si ferma a pensare alle dinamiche che ci circondano. Ma è molto difficile.

Perché?

Perché viviamo in un'epoca ingestibile, ricca di parole e manipolazione. In un momento cruciale per l'evoluzione dell'essere umano, come la rivoluzione tecnologica, ciò che riesce a rapire l'attenzione è parlare alla "pancia" delle persone. Quando non gli spieghi le considerazioni, ma trasmetti qualcosa che possa far sentire tutti uguali.

Come mai hai scelto un cortometraggio per presentare Habitat?

Perché voglio trasmettere qualcosa e il cortometraggio lo fa non in modo sensazionalistico, un po' come la mia musica. Rispetto all'aspetto cinematografico, quello a cui mi sono ispirato è il minimalismo: ho scelto di togliere elementi, così il cervello e la "pancia" devono attivarsi per cominciare a processare ciò che sto cercando di comunicare.

Perché questa scelta?

Perché se riveli tutto, immediatamente, c'è un click e si passa al prossimo video, al cane che viene coccolato su TikTok. Ho bisogno che rimanga qualcosa, nei giorni, nei mesi e negli anni. E devo ammettere che sto riscontrando questo effetto nelle persone, che dopo anni, mi chiedono ancora la valenza dei miei testi passati.

Hai scritto nel 2020 il tuo primo libro, l'autobiografia "Non voglio fare cose normali". Hai mai pensato di scrivere qualcosa non legato personalmente alla tua vita, un romanzo di formazione?

Ci sto pensando, anche perché con Habitat si è chiuso un ciclo. Non so se sarò pronto a smettere di parlare di me, però non ti nego che sto pensando molto ai libri che vorrei scrivere in futuro. Ho bisogno di imparare a scrivere libri.

L'11 agosto negli Stati Uniti si festeggiano i 50 anni dalla nascita dell'hip hop. Due mondi, due ambienti completamente diversi e per questo non avvicinabili. Dall'altra parte, credi ci sarà mai la possibilità, per il rap italiano, di essere celebrato nel nostro paese?

Non lo so, non credo che ci sia un legame fortemente identitario con la cultura italiana. Noi abbiamo una natura melodica e autoriale, un vanto per la cultura italiana, ma siamo lontani da quella hip hop. In Italia ci sono i rapper che sono nell'ambiente musicale, ma non c'è una scena rap. Basti pensare che il pubblico, almeno qui, ascolta il rap e poi il pop italiano anni '80.

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