Gli ultimi mesi sono stati molto positivi per la “nuova” scena post-punk nazionale, come ampiamente dimostrato da His Electro Blue Voice e Soviet Soviet. La più inequivocabile smentita a chi, nutrendo pur giustificabili dubbi, potrebbe essere tentato di controbattere, è stata fornita martedì scorso dalla pubblicazione da parte della We Were Never Being Boring del secondo album dei Be Forest, “Earthbeat”: non proprio un fulmine a ciel sereno, comunque, dato che nel 2011 il trio composto da Nicola Lampredi (chitarra), Erica Terenzi (batteria, voce) e Costanza Delle Rose (basso, voce) si era già distinto con il promettentissimo “Cold”, dal quale era scaturita la possibilità di essere la spalla ai Japandroids (che non sono i Rolling Stones, ma in certi ambiti godono di ottima reputazione) nel loro tour europeo. Un exploit notevole, d’accordo, che rischiava però di rimanere tale se il gruppo originario di Pesaro (come i Soviet Soviet) fosse rimasto fermo sulle sue pur intriganti posizioni artistiche.
Invece, ampliato l’organico con l’ingresso del tastierista e addetto alle elettroniche Lorenzo Badioli, i Be Forest si sono lanciati verso altri traguardi, consentendo ai raggi di un pur pallido sole di investire il loro sound fino ad allora cupo e piuttosto ripiegato su stesso. Non è stata una rivoluzione copernicana, giacché le coordinate stilistiche del “prima” e del “dopo“ non sono poi così dissimili, ma di sicuro la musica della band marchigiana ha guadagnato in fluidità, morbidezza, sfumature, calori, carisma. Se ci si trova in sintonia con un tipo di espressione musicale che privilegia cadenze ipnotiche e atmosfere avvolgenti, e che pur vantando splendide melodie evita le soluzioni di troppo facile presa, “Earthbeat” offre dunque un’esperienza di ascolto quantomai intensa, un flusso emotivo che si snoda attraverso tutti e nove i brani proponendo una colonna sonora sostanzialmente omogenea ma non ripetitiva.
Facile scoprirsi imprigionati in spire impalpabili ma tenacissime dalle quali non si avverte il desiderio di liberarsi: perché spezzare l’incantesimo creato dalle trame ipnotiche di basso e batteria, dalle pennellate della chitarra, dal fascino degli ambienti tastieristici, da giochi canori che proiettano in una dimensione onirica? Qualcosa di sospeso fra il classico canone 4AD, la storica etichetta londinese che lanciò, ad esempio, Dead Can Dance, Cocteau Twins e This Mortal Coil, e quegli XX che, sempre al di là della Manica, ne sono considerati interpreti in chiave moderna.
È definito non a caso “dream pop”, il genere entro il quale si muovono i Be Forest. Un dream pop che, tuttavia, non sembra in questo caso essere un esercizio calligrafico, bensì uno strumento per scavare nell’animo e godere dei piaceri più o meno arcani che vi si celano. Nessun trucco né inganno: solo canzoni fatte per sognare, analoghe a quelle composte e interpretate da molte altre compagini angloamericane – dai Beach House alle Warpaint, solo per fare un paio di nomi di quelli che oggi vanno per la maggiore – ma dotate di un respiro e una classe in grado di renderle speciali. Lasciatevene cullare.