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Vinicio Capossela: i quindici anni di “Canzoni a manovella”

Le celebrazioni del quarto di secolo di attività discografica hanno comprensibilmente messo in ombra un altro anniversario riguardante Vinicio Capossela, ovvero i tre lustri del suo disco più apprezzato. Rimediamo.
A cura di Federico Guglielmi
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Lo scorso 29 agosto, nel contesto del “Calitri Sponz Fest” da lui diretto, Vinicio Capossela ha festeggiato i venticinque anni di appassionata relazione sentimentale con la musica, o – meglio – il quarto di secolo trascorso dall’uscita del suo esordio, “All’una e trentacinque circa”. Un gran bel disco, oltretutto vincitore della Targa Tenco nella categoria “opera prima”, ma non il capolavoro del funambolico artista irpino; critica e appassionati, benché con qualche rimpianto per “Il ballo di S. Vito” del 1996, sono infatti abbastanza concordi nell’attribuire la palma a “Canzoni a manovella”, il quinto album, arrivato nei negozi nel settembre del 2000. In questi giorni c’è dunque un’altra ricorrenza da onorare: i quindici anni della raccolta di canzoni con cui il Nostro – che sarà cinquantenne il prossimo 14 dicembre: quante celebrazioni, in questi mesi di fine 2015 – si è guadagnato in via definitiva un posto fra i (massimi) protagonisti della canzone d’autore nazionale, portando alla piena maturazione quanto sviluppato già brillantemente in “Il ballo di S. Vito”. Non è un caso che, per dargli un seguito all’altezza (“Ovunque proteggi”), Vinicio abbia avuto bisogno di più di cinque anni, benché con l’antologia “L’indispensabile” piazzata grossomodo a metà strada fra i due.

Fu proprio durante la promozione del “best of”, nei primi mesi del 2003, che incontrai per la prima volta Capossela, per un’intervista pomeridiana durata quattro ore dalla quale ricavai un lunghissimo articolo monografico. Oltre alle doti affabulatorie del mio interlocutore, ricordo come fosse ieri le tre bottiglie di Corvo lasciate vuote sul tavolo – buffo, in sede di trascrizione, ascoltare domande e risposte sempre più strascicate – che ebbero come conseguenza una mia piccola odissea per rientrare a casa alla guida della moto. Nella circostanza, naturalmente, si parlò pure di quello che al momento era l’ultimo album “vero” del musicista. “Nei primi mesi del 2000 mi sono trovato a dover operare una scelta: avevo in mano molti pezzi del filone ‘parole d’altrove’ ma avevo anche canzoni del tutto mie, che definirei da Vecchia Europa… bisognava decidere quali incidere ed era un bel problema, perché ero affascinato da entrambe. Dopo varie riflessioni optai per le seconde, tutte concepite per un unico progetto che ho battezzato ‘Canzoni a manovella’: erano storie inventate, fortemente teatrali, che idealmente potevano essere suonate a manovella, con l’organetto da fiera. Alla fine, ‘per sbaglio’, in scaletta ne sono finite anche alcune che non avrebbero dovuto starci, ma che comunque erano adatte a quel concetto. Non è un’opera aderente alla vita come ‘Il ballo di S. Vito’, bensì un’opera nella quale trasferire l’immaginazione della vita: non riguarda me nello specifico ma è qualcosa di più ampio che riguarda tutti, una specie di memoria storica… A un certo momento ho smesso di mettermi a repentaglio in mezzo alla strada e mi sono chiuso in un posto facendomi arrivare, tramite la lettura, le testimonianze del passato: gli uomini che sono vissuti prima di noi, la guerra, quel che si suonava… ho fatto di me un laboratorio, un frigorifero chiuso cui ho staccato la spina per farmi crescere dentro questa muffa secolare. Inevitabilmente, è un disco con molti echi letterari, ma sarebbe sbagliato ricondurlo solo ai libri: quella che racconto è umanità che urla dalle pagine e dunque anche dalle canzoni. È come un catalogo, anche di cose fantastiche: i pagliacci, l’uomo cannone, l’aviazione, il dirigibile, lo scoppio, la pioggia…”.

Quindici anni dopo, “Canzoni a manovella” rimane un album magnifico, dove i riferimenti letterari (Céline, Jarry, Primo Levi, Wilde) e i preziosi stimoli musicali garantiti dallo schieramento di musicisti di primissima scelta (fra i tanti, Marc Ribot, Pascal Comelade, Roy Paci, Ares Tavolazzi, Mirco Mariani) e dall’illuminata coproduzione di Pasquale Minieri si intrecciano in quindici brani (e due intermezzi) fascinosi – mi si perdoni il ricorso all’autocitazione – “nelle loro architetture sghembe, nelle loro soluzioni bizzarre, nelle loro atmosfere surreali, nel loro caleidoscopio terminologico e nella loro voce camaleontica”. Di tutto e di più, in un ping-pong tra trame ora incalzanti e ora avvolgenti, agganci alle più diverse tradizioni folk, aromi blues e/o noir, ad assecondare un approccio mai canonico ricco di affinità con quello dell’indiscusso maestro Tom Waits. Da “Con una rosa” a “Signora Luna”, da “Corre il soldato” a “Decervellamento”, da “Marcia del camposanto” a “Resto qua”, dalla programmatica “Bardamù” che apre le danze fino al pirotecnico singolo (con notevole videoclip in tema) “Marajà”, sessantaquattro minuti che incuriosiscono, stupiscono, spiazzano. Nel 2001, ex aequo con “Amore nel pomeriggio” di Francesco De Gregori, la Targa Tenco avrebbe certificato senza più rischio di equivoci come Vinicio non fosse (solo) uno chansonnier eccentrico, bensì un autore di spicco destinato a durare e a incidere sulla storia della nostra musica. Il prosieguo della sua carriera, con una pioggia di ulteriori riconoscimenti, è stato in tal senso una continua conferma.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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