Da quattro giorni è in circolazione “Come vorrei”, il nuovo singolo di Vasco Rossi che anticipa l'album ”Sono innocente” la cui uscita è stata fissata al 4 novembre. Lo sanno tutti, dato che la macchina promozionale ha trovato terreno fertile a qualsiasi livello: il “rocker di Zocca”, come lo chiamano in tanti sebbene l'appellativo susciti raccapriccio in chi crede (comprensibilmente) che il rock sia altro, fa sempre notizia e quindi nessuno ritiene disdicevole unirsi al gregge di copiaincollatori di comunicati stampa. Del nuovo singolo, comunque, a me importa il giusto, ovvero meno di nulla: penso che sul piano artistico Vasco Rossi abbia smesso di essere rilevante oltre vent‘anni fa, ai tempi di “Gli spari sopra” o forse addirittura prima, e il mio interesse per lui è solo di tipo, come dire?, “antropologico”. Sono affascinato, insomma, dalla sua capacità di continuare a colpire il grande pubblico anche dopo essersi trasformato nella parodia di ciò che era, perché gli anni passano, la creatività si sclerotizza e gli eccessi da vita spericolata lasciano il segno. E sono davvero sorpreso dal fanatismo che lo circonda, benché sia del tutto consapevole di come, per certe cose, la qualità della musica conti poco. Ma non è di questo che volevo scrivere, no: non cerco il plauso dei detrattori né tantomeno fruste polemiche con gli osservanti, perché dibattere con questi ultimi dei limiti del Blasco attuale ha lo stesso senso – nessuno – di affrontare con un bigotto un discorso sulle contraddizioni della sua religione.
Meglio, allora, parlare d'altro, rievocando giorni in cui Vasco Rossi era in una fase di passaggio tra lo status di fenomeno emiliano-romagnolo e la notorietà nazionale. Sarà stato il 1979, forse l‘inizio del 1980, e Red Ronnie – con cui all'epoca coltivavo una bella amicizia e una passione incontenibile per la new wave – mi consigliò di ascoltare questo suo corregionale che con la nuova onda non c'entrava nulla ma che, secondo lui, costituiva un caso a sé nella pur variegata scena cantautorale nostrana. A causa dell'ardua reperibilità degli album impiegai un po' a raccogliere il suggerimento, ma durante uno dei miei raid al mitico Disco d‘Oro di Bologna acquistai il terzo LP “Colpa d'Alfredo” e dovetti dar ragione al collega: Vasco vantava una spiccata personalità e non temeva di esporla attraverso brani atipici tanto nella forma a base di ruvidi tòpoi rock'n'roll, quanto nella voce sgraziata ma intrigante e in testi espliciti e all'occorrenza politicamente scorretti. Ci voleva un bel coraggio a cantare, per esempio, ”è andata a casa con il negro, la troia”, ma lui lo faceva senza vergogna; non era il massimo dell'eleganza, ok, ma dell'autenticità senz'altro sì, e i versi raccontavano un mondo provinciale “ruspante” in cui era facile, per molti, rispecchiarsi. A destare scandalo non furono comunque né il negro né la troia, bensì “Sensazioni forti” e soprattutto il suo “vogliamo godere, godere, godere” urlato agli spettatori della trasmissione RAI “Domenica In” durante un collegamento con il “Motor Show” bolognese. Un giornalista famoso e di norma arguto, Nantas Salvalaggio, volle vestire panni da Savonarola e scrisse un articolo di fuoco, accrescendo notevolmente la popolarità del musicista. Una fama poi incrementatasi in modo esponenziale con le due partecipazioni al Festival di Sanremo – “Vado al massimo” e “Vita spericolata” – e relative sfide alla platea cosiddetta benpensante. L'uno-due del biennio 1982/83 assegnò al Nostro il ruolo di pecora nera della musica tricolore di massa. Il resto è storia.
Nel mezzo di tali vicende, Vasco Rossi realizzò “Siamo solo noi”, edito nel 1981 dalla Targa. Più maturo dei precedenti, ma ancora segnato da quella naïvete che nei successivi sarà attenuata dalla consapevolezza dell'autore di non essere più un emarginato e/o un perdente, ha come zenit la title track – classificabile fra gli inni trans-generazionali – ma è reso anche prezioso dall'incisiva e sofferta “Brava”, dalla ballad “Incredibile romantica”, dalla pungente – già dal titolo – “Ieri ho sgozzato mio figlio”, dalla briosa “Dimentichiamoci questa città”. Nonostante le soluzioni strumentali a volte un po' troppo scolastiche e qualche caduta di tono, lo reputo una pietra miliare del rock italiano, nonché il 33 giri più ispirato e significativo dell'allora ventinovenne Vasco, colto nel momento di massimo slancio subito prima di spiccare il volo verso lo stardom. Nessuno dei futuri decolli, seppur tecnicamente più validi, sarebbe stato altrettanto eccitante.