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Raiz canta Sergio Bruni oltre Mare Fuori: “Mi si rompeva la voce per la commozione”

Raiz ha pubblicato un album in cui rifà alcune canzoni di Sergio Bruni. Il cantante degli Almamegretta continua questa sua doppia vita artistica, protagonista anche di Mare Fuori.
A cura di Francesco Raiola
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È una vita strana quella di Raiz, al secolo Gennaro della Volpe, artista che ha scritto la storia della musica italiana contemporanea con gli Almamegretta, ma noto al grandissimo pubblico, oggi, grazie al ruolo di Don Salvatore in Mare Fuori, la serie Rai esplosa nei mesi scorsi, per cui canta alcuni dei temi principali, da "‘O mar for" a "Ddoje mane" e "Tic Toc". Una carriera attoriale che va avanti da anni e prosegue parallelamente, ormai, a quella musicale che in queste settimane lo vede protagonista con l'uscita del suo nuovo album "Si ll’ammore è ‘o ccuntrario d’’a morte", un disco dedicato alla musica di Sergio Bruni, il grande cantante, autore di pezzi come "Carmela" e "Indifferentemente", tra le altre. Di questo ha parlato a Fanpage.it.

A un certo punto della vita tutti gli artisti napoletani arrivano a confrontarsi con Sergio Bruni. Tu quando ci sei arrivato?

Forse, col senno di poi, da Sergio Bruni non mi sono mai nemmeno distaccato. Nella mia esperienza con gli Almamegretta, oppure da solista, con una certa sperimentazione con la musica elettronica e con quella napoletana e mediterranea pensavo di avere una virtù innata, pensavo di aver ereditato, in qualche modo, questo modo di cantare, lo sentivo dentro di me, poi ho scoperto che io facevo tutto come se Sergio Bruni fosse andato in Giamaica e avesse fatto delle cose.

Artisticamente l'hai sentita subito questa cosa?

Sì, è successa fin dagli albori degli Almamegretta, concretizzandosi definitivamente con Sanacore, dove è proprio come se Sergio Bruni – inteso come punta più alta, più nobile, probabilmente, di tutta una generazione – si fosse trasferito in Giamaica e avesse fatto quel disco lì. Lui ha sempre cantato dentro di me, come ho scritto pure nelle note di copertina, l'ho subito nell'infanzia, nell'adolescenza, è stato un mio maestro subliminale. Quando poi ho fatto i conti con questa cosa, mi sono trasformato da ascoltatore passivo a interprete attivo, ho provato a cantare delle canzoni di Sergio Bruni e mi sono reso conto di quanto lui fosse stato importante per la mia formazione di cantante e linguistica e così ho pensato di fare un tributo adeguato, bello, divertendomi, pure.

C'era timore reverenziale in questo tributo? Hai pensato a qualcuno che lo aveva già fatto, in passato?

Cantare quel materiale lì è un po' come come affrontare il materiale sacro, che è ciò che appartiene a un'intera collettività che la reputa qualcosa di bellissima, importantissima e imprescindibile. Ti devi confrontare con quello sapendo di avere il giudizio dell'intera collettività a cui appartiene questo materiale. Siccome mi sento organico – per citare Gramsci – a questa collettività che è Napoli, mi sono sentito giudicato già mentre facevo il disco, è stato difficile portare a termine questo lavoro, anche per me che sono abituato a cantare in qualunque condizione. Pensa che ho cominciato a cantare quando avevo 17 anni, facevo il piano bar, quindi sono abbastanza avvezzo a fare delle cose anche in condizioni un po' precarie.

Ma con Bruni è stato più complesso…

Sì, stavolta è stato diverso e pur essendo in uno studio bellissimo, da solo, in forma, non riuscivo a portare a termine i pezzi perché la voce mi si rompeva per la commozione: commozione per i testi? Forse. Spesso i testi di Salvatore Palomba sono meravigliosi, però li conoscevo già bene, quindi non era commozione per una cosa che conosci bene quanto proprio indugiare su quelle note, su quelle cose ascoltate, su quelle sensazioni provate che come un profumo ti aggrediscono e ti riportano lontano, anche in un mondo che non conosco fino in fondo. Insomma, è stato difficile, però alla fine ce l'ho fatta, l'ho fatta tutta in un giorno, mi sono messo a cantare e quando ho visto che le prime due canzoni andavano lisce mi sono detto che era il momento di cantare tutto l'album, non sono uscito dallo studio fino a quando non ho avuto tutti i take, è stato un po' come fare un concerto, ma più concentrato.

Hai dedicato quest'album a tua madre, che te le cantava, e a tua figlia a cui le canti: essere cresciuto fuori Napoli ha avuto un'influenza rispetto a questa cosa?

Essere cresciuto fuori Napoli per me è stato importantissimo dal punto di vista artistico. Io mi chiamo Gennaro e sono cresciuto in provincia di Milano, quindi far finta di essere milanese valeva fino a un certo punto perché poi c'era sempre quel Gennaro che testimoniava l'appartenenza etnica, ma a parte questo la mia famiglia è rimasta a Napoli anche in esilio, quindi c'erano il cibo, le riunioni conviviali, gli amici – conoscevano tutte persone più o meno del giro napoletano – che ricreavano una piccola Napoli e questo accade spessissimo per chi vive fuori, specialmente nei fine settimana. A me mancava una dimensione di napoletano completo, cioè la conoscevo fino a un certo punto, non mi bastavano solo l'estate, le feste, non mi bastavano soltanto questi sabato e queste domeniche, ma mi mancava una napoletanità integrale che ho acquistato solo quando sono ritornato qui.

Quando è successo?

Più o meno nell'80, avevo fame di questa cosa e ho avuto il privilegio di guardare la città da esterno ma interno, nel senso che ero un esterno perché sono cresciuto fuori, lontano dalla città, ero un ragazzo della pianura tra Milano e Bergamo, che però parlava perfettamente il napoletano, quindi questa cosa qui mi faceva percepire dai napoletani come non straniero. Ero una spia perfetta: a Napoli è importante l'identità, è importante essere napoletani, se sei napoletano sei trattato in un modo, e in un altro – non peggio – se non lo sei. Io invece no, ero l'alieno, però organico. Questa fame mi ha fatto affezionare a tutti gli aspetti culturali della città, li ho appresi con lo spirito del neofita diventando più realista del re e mi sono affezionato a questa cosa.

C'è stato per te un incontro come quello con Salvatore Palomba è stato per Bruni?

Pino Daniele. Quando l'ho incontrato è stato un momento veramente importante, è come se si fosse manifestato il genio della lampada per me, qualcosa di cui si è sempre sentito parlare, ma poi in realtà non avevi mai toccato con mano. È Pino che poi ci ha cercato, all'inizio della nostra carriera, ci volle conoscere perché gli piacevano le canzoni degli Almamegretta, aveva ascoltato queste cose che lui sentiva, giustamente, che derivavano dal suo lavoro. Pino per me è stato tutto, negli anni del liceo è stato il mio artista preferito, l'ho seguito in tour, ho lavorato addirittura come facchino ai suoi concerti. Insomma, tutto quello che si poteva fare per stargli vicino l'ho fatto, quando ha voluto conoscerci è nata anche un'amicizia, una frequentazione. Io a un certo punto sono andato via da Napoli, mi sono trasferito a Roma e abitavamo vicino, ci vedevamo… eccomi, questo è stato un incontro che mi ha fatto ricongiungere il sogno con la realtà, anche perché Pino comunque è del mio quartiere di origine, della mia parte di Napoli, del centro storico, di Santa Chiara, quindi quello è stato un incontro fondamentale.

In "Pe' dint' ‘e viche addò nun trase ‘o mare" la vicinanza degli Alma con Bruni era evidente, anche solo guardando la costruzione del testo. Il motivo, leggendo i credit è chiaro…

Sì, c'è tutta questa Napoli bruniana, che poi abbiamo cercato di proposito, contattando Salvatore Palomba e chiedendogli un testo che non aveva ancora musicato. Lui ci diede questa poesia. Era una poesia lunga dalla quale ho preso due strofe, quello che a me sembrava il ritornello, le ho dato questa melodia, che poi è una melodia più campagnola che cittadina, perché la musica degli Almamegretta si è sempre rifatta un po' alle canzoni classiche, ma anche alla musica della campagna. In qualche modo, anche qui Bruni mette insieme due cose perché lui è un napoletano extra-moenia, cioè non è uno nato in città, è nato a Villaricca, e porta con sé, non so quanto consapevolmente, tutta una ruralità nel suo modo di cantare, di girare le cose, di usare questa voce che non finisce mai: c'è sempre l'emissione vocale lunghissima, quasi non europea, che ritorna al canto a stesa, tecnica che conosceva bene perché figlio di contadini, quindi lui porta questa cosa qui e gli Almamegretta sono una versione più elettronica e reggae di Bruni.

In che modo la tua e la vostra carriera stanno beneficiando anche di questi pubblici diversi che stai portando?

Io penso di essere uno di quegli artisti che che ha uno zoccolo duro che più o meno segue quello che faccio e sta attento. E poi, ad esempio, questa proposta è stranissima, il fatto che un artista come me facesse Sergio Bruni, col mio passato più legato ai rave che al concertino. Pensavo non fosse accolto troppo bene perché fondamentalmente l'ho fatto per me questo disco e invece poi vedo che sta avendo un riscontro incredibile, anche come concerti: c'è una bella richiesta di concerti. Quello che propongo per questo spettacolo, con i Radicanto, è molto in stile concertino, con la piccola orchestra che potrebbe suonare in dimensione completamente acustica, ma che si amplifica giusto per farsi sentire, per una questione di volume.

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