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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Ci pensiamo domani di Angelina Mango

Angelina Mango è stata una delle protagonista dell’estate con “Ci pensaimo domani”, canzone che partendo dal giro di Do e da Lucio Battisti ha conquistato il Paese.
A cura di Federico Pucci
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Angelina Mango (ph Francesco Cerbini)
Angelina Mango (ph Francesco Cerbini)

Settembre è il mese in cui si torna a scuola, esperienza agrodolce per eccellenza: da una parte si ha voglia di rivedere facce amiche e riprendere una certa routine; dall’altra, è la scuola. Per quanto uscita a maggio, non c’è nessuna canzone in circolazione tra le hit di quest’estate che sappia restituire quel groviglio di emozioni meglio di Ci pensiamo domani – peraltro, la risposta che qualunque studente darebbe alla domanda “hai finito i compiti estivi?”.

Angelina Mango i compiti estivi li ha fatti tutti: la sua canzone ha spopolato su TikTok, ha fatto il giro delle rassegne radio-televisive, e ancora tiene botta in classifica. Ma perché? Perché anche la canzone stessa (scritta da Angelina con Alessandro La Cava, Fulminacci e Zef) ha fatto tutti i compiti, specie quelli di storia: nella sua semplice confezione di pop contemporaneo contiene un alto quoziente di musica leggera italiana tradizionale, e questa è la sua forza. Per essere una canzone dalla melodia tanto articolata (e vedremo quanto), Ci pensiamo domani ha ottenuto un successo tutt’altro che banale o prevedibile – mai sottovalutare il pubblico. Ma, sapendo muoversi con efficienza dove illustri predecessori erano già passati, ha la furbizia di stuzzicare papille auditive ben predisposte.

Come sempre, tutto parte dalla sequenza di accordi, il “giro”, e qui Mango va sul sicuro: la canzone usa il famigerato “giro di Do” (per quanto invertito, con l’accordo della tonica alla fine). La punta della lingua compie un percorso di quattro passi sul palato per battere, al quarto, contro i denti: “Era Do, semplicemente Do”. Ma dietro queste paroline magiche, spesso pronunciate da finti espertoni di chitarra, si cela un intero modo di vedere la musica occidentale, l’idea che tutti gli accordi possono legarsi tra loro in un “ciclo delle quinte”, una struttura immaginaria più solida di tutte le leghe metalliche, perché ciascun accordo è una quinta, o sette semitoni, più “in basso” del precedente, incatenando così ogni nota con l’intervallo più gratificante che esista, quello che sembra più logico e risolutivo.

Da questo “ciclo” deriva una progressione che puoi trovare praticamente in ogni compositore classico. Mozart? Ce l’ha. Vivaldi? Ma certo. Bach? Potremmo quasi dire che l’abbia inventata. Non mancano esempi un po’ meno imparruccati – comunque non incipriati – da Gloria Gaynor ai Beatles. Ma la versione accorciata di questa serie, saldata in un loop di quattro accordi, è ciò che chiamiamo “giro di Do” e talvolta scriviamo I – vi – ii – V: dai Police agli Weezer l’abbiamo sentita ovunque, ma mi piace credere che la musica leggera italiana, e in particolare Gino Paoli, abbia messo un’ipoteca su questo giro: il cantautore genovese l’ha sfruttata in ogni modo e con ogni sfumatura di emozione, arrivando praticamente a creare l’estate.

Messo da parte il libro di storia, quel che si impara dalla lezione è che a seconda del primo accordo suonato cambia lo spirito della canzone: parti con il Do, avrai tutta la Felicità del mondo; parti con l’accordo minore (in questo caso Si minore), e non ti resterà che piangere. Angelina Mango, a rigore, usa la stessa sequenza di E penso a te di Lucio Battisti, ma mentre questo sacrificava la complessità melodica per un piccolo fraseggio facilmente memorizzabile (“papara parapapà”: parole non mie, eh, ma di Mogol) consapevole dell’effetto tragico dato dal tempo lento e dall’arrangiamento sparuto, la giovane cantautrice fa tutto il contrario. A passo sostenuto e fra mille rivoli ritmici, scompone il giro nelle sue due metà e gioca con due scale diverse: nella metà “triste” del giro (Si minore, Mi minore) canta sopra la scala pentatonica, quella delle filastrocche e degli assoli blues, e così incappa in un hook micidiale (“come se, come se, come sere d’estate”); nella metà “risoluta” (La, Re) si concede il lusso di passeggiare nella parte più densa della scala maggiore, per sottolineare emozioni e intenzioni più complesse.

Rimbalzare tra modi diversi di cantare sopra scale diverse ma simili non è solo un gioco fine a sé stesso: è restituire quel complesso sentire di chi, pur essendo nel mezzo delle vacanze, sogna il “dolce far niente” e le domeniche; è simulare la noia di chi spera di “scappare in Nevada” o quantomeno fuggire di notte “sull’autostrada del Sole”; è l’irrequietezza dell’adolescenza, ancora più giovanile perché dice tutto questo sopra un beat accelerato anziché nel midtempo epico di un Bruce Springsteen in fuga dalla provincia. E poi, è un modo eccellente per disseminare la canzone di trappole. Per esempio, mentre l’inciso si annoda in modi non così immediati, un acuto esplora brevemente l’ottava superiore sulle parole (non casuali) “quanto è bello sbagliare”: un bel gesto canoro che insiste sull’impronta mnemonica lasciata dalla famigerata melodia di “labbra rosso Coca-Cola” (Fedez, Achille Lauro, Orietta Berti, Mille). Parlare di citazione sarebbe errato: è usare un vocabolario secolare, e farlo per dire le proprie verità. Così, ad esempio, “niente fretta” e “quando torno in città” hanno movenze battistiane, ma nulla dell’ossessione di E penso a te; “ma ma male che va” cammina sui passi impressi nella sabbia da Mina in Parole parole (uno dei più grandi tormentoni di sempre, come scrive anche Szendy nel suo libro già citato in questa rubrica), ma ripetendo l’inceppo irresistibile dell’inizio dell’inciso fa svanire la disillusione.

Ma le trappole per le orecchie sono sparse in tutto il brano, letteralmente dai primi secondi: quando quella chitarra elettrica un po’ nasale, abbastanza Frusciante (nel senso di John) e parecchio disco apre le danze, lo fa intonando quattro note (Mi – La – Mi – Fa#) che funzioneranno da modello per tutte le melodie successive. Non sono trascorsi nemmeno 10 secondi, e sai già la canzone a memoria: Zef, che ha prodotto la traccia, sa il fatto suo in materia di hook.

Angelina non è la prima a cantare una canzone che collega le smanie della giovinezza alla fugacità dell’estate, l’insoddisfazione per le giornate che man mano si accorciano al riavvicinarsi degli impegni (il “ritorno in città”). Se, però, in quel “domani” non mettiamo solo “gli sbatti” ma anche la voglia di riconquistare la serenità, allora non tutto è perduto. Ci pensiamo domani non è (solo) la canzone di una procrastinatrice, ma una dichiarazione di fiducia nel futuro. L’ottimismo dell’adolescenza è lo stesso che ti convince di “poter fare tutto”: posta di fronte alla scelta tra il canto all’italiana di cui è notoriamente erede e la melodia infusa di blues nella quale è cresciuta, la cantante sceglie di non scegliere; non per ignavia ma perché sa di poter essere entrambe le cose, con quella fiducia che solo i vent’anni ti possono dare. E questa fiducia trasuda nel modo in cui Angelina canta, spigliato e consapevole, energico ma sfumato. E quando sembra di sentire echi del passato, non è per illudersi di poterlo rivivere: è voglia di scrivere una nuova storia, se servisse anche con un inchiostro d’annata. E almeno una parte del pubblico quella voglia di futuro la condivide, e spera di tenersela stretta a settembre, sul banco o in ufficio.

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