Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Che t’o dico a fa’ di Angelina Mango
La storia della musica è anche una geografia. La terminologia musicale conserva tracce dei luoghi in cui è stata coniata, o dove certe scuole hanno raccolto particolare successo: oggi parliamo di bridge e refrain perché discendiamo dal pop anglofono, ma gli anglofoni a loro volta devono imparare a dire prestissimo, moderato e ma non troppo. Ma, ben più importanti dei nomi, sono gli stili, le usanze, le preferenze di un certo paese che diventano toponomastica musicale, pronta per essere esplorata da artisti in cerca di idee forti in giro per il mondo. Molto spesso, quando avviene un prestito del genere, l’ascoltatore – anche il più distratto – ci fa subito caso, e un canzone lo trasporta brevemente altrove. Così, se scrivo Che t’o dico a fa’ di Angelina Mango contiene alcuni suoni che “sanno di flamenco”, molte persone saprebbero subito individuare a quali suoni mi riferisco: i battiti di mani che costituiscono parte integrante del suo accompagnamento. Ma non è solo questo che la giovane popstar ha trasportato dalla penisola iberica, bensì un repertorio di tecniche di canto e ritmo che farebbero ballare anche i sassi.
Lo spirito del pezzo – si vede anche nella coreografia del video, curata da Giulia Stabile – viene direttamente dall’Andalusia e dalla sua storia nobile e popolare di balli densi di ritmo. Però, stiamo pur sempre parlando di pop, la terra dove tutti marciano al tempo di 4/4. Allora, le mani che battono – palmas nel lessico del flamenco – non possono indulgere negli intrecci metrici di gran parte di quella tradizione. Fortunatamente, fra i molti palos (cioè, stili) ce n’è un’intera famiglia che accetta anche il più quadrato dei tempi: in particolare, il taranto originario di Almería si incastra nel 4/4 senza rinunciare alla necessità di ballare, con un accompagnamento di palmas ternario. Tra gli altri prerequisiti del taranto ci sono versi composti di otto sillabe e un’armonia costruita intorno all’accordo di Fa# sulla scala cosiddetta frigia dominante, conosciuta oggi anche come scala flamenco – appunto. Caso vuole che Che t’o dico a fa’ obbedisce a tutte queste richieste, nessuna esclusa: il beat mette in fila un tempo forte, due tempi deboli e due tempi forti (tum ta-ta tum cià); il ritornello si apre con due versi ottosillabici (“Po-te-vo-bal-la-re-con-lui / Ma-sto-qua a-paz-zia-re-con-te”); la melodia e gli accordi rispettano la tonalità corrispondente nella cosiddetta scala minore armonica, legata a doppio filo con la scala frigia.
Se si parla di provenienze, il nome “frigio” non può che evocare terre lontane e le loro musiche esotiche: il significato era questo già per gli antichi greci, che per primi diedero questo nome a un modo musicale – cioè, a una serie di note e accordi accomunati da certe specifiche relazioni. Però, parlare di “frigio” nel pop rischia anche di evocare mal di testa colossali e incomprensioni fatali – a meno che non si sia diplomati al conservatorio o si abbiano alle spalle centinaia di ore di lezioni di chitarra. Sarebbe anche equivoco, inoltre, perché la scala minore armonica usata qui (cugina stretta della frigia dominante) è decisamente più frequente. Anzi, anche se non sai di cosa si tratta, l’hai sicuramente già sentita: la usa Billie Eilish in bury a friend e bad guy; la usavano i No Doubt in Don’t Speak e Britney Spears in Oops… I Did It Again; ma si può risalire fino agli Eurythmics di Sweet Dreams (Are Made Of This). Non proprio canzoni sconosciute, insomma.
La popolarità di questa scala non è casuale perché, mantenendo lo stesso livello di malinconia e angoscia della sua sorella maggiore, la “minore naturale”, possiede anche tutto quello che le manca: un senso di urgenza, iniettato dall’unica nota per cui si differenziano – per chi sta prendendo appunti da casa, il settimo grado che avvicinandosi di un semitono alla tonica (la nota che potremmo chiamare “casa”) aumenta la tensione, cioè il bisogno psicologico di arrivare a una destinazione.
A questa destinazione Angelina torna spesso nella sua canzone, scritta con Zef (anche produttore del brano), Alessandro La Cava e Alessandro De Crescenzo: così, dopo aver accumulato a ogni giro un carico di energia, alla fine sentiamo un rilascio potente e soddisfacente, in un tira e molla continuo e potente tra minore e maggiore. Così disposti, gli accordi ricordano un elastico: dal punto di partenza veniamo stiracchiati e tesi sempre di più finché, inevitabilmente, siamo rischiaffati al punto di partenza, con la forza di una cadenza particolarmente popolare nella musica… andalusa – così anche noi siamo tornati al principio. Un messaggio musicale molto appropriato, che si rispecchia perfettamente nel senso delle liriche: la convinzione quasi sfacciata con cui si sceglie un amore, accompagnata ciononostante da preoccupazioni e ansie, nello specifico l’ansia che l’altra persona non si accorga del suo sentimento – forse i battiti di mani servono a svegliare questo pezzo di baccalà?
A proposito di battiti di mani, nonostante il compromesso delle strofe e del ritornello, nel bridge (“Sembra una pazzia…”) Zef e soci si permettono di strafare: qui le palmas recuperano un disegno ritmico più arcano e complesso, incastrando almeno in parte i dodici battiti delle bulerías con la scusa dello stop della cassa. Un trick metrico degno di Rosalía, la cantautrice catalana che meglio di tutti ha tradotto le parole e il suono dei cantes nel pop moderno (e in un clash di stili, dal reggaeton all’R&B). Già, perché nemmeno l’artista iberica proviene geograficamente dalla tradizione da cui ha imparato moltissimi trucchi.
D’altronde, la musica popolare è sempre andata avanti grazie a prestiti rispettosi, ossequiose citazioni o anche qualche palese furto (non è questo il caso, e ci mancherebbe). Per questo, bisogna tirare una linea rispettosa ma netta tra ispirazione e appropriazione culturale. Così come Mango, cresciuta a un passo dalla provincia di Salerno, sente propri i modi di dire della lingua campana, così il suo accostamento alla musica andalusa potrà anche essere occasionale ma – come abbiamo visto – non è esteriore: quello che per secoli ha reso irresistibile il flamenco si ritrova, in qualche modo, anche in Che t’o dico a fa’, attrezzata così per affermarsi come una delle canzoni più ascoltate dell’autunno 2023. Quando la giovane popstar ci canta “ogni posto è casa mia”, dobbiamo crederle.