Perché il rapper Paky si è esibito con un cappio alla gola cantando “Non Scherzare”
"Mi manca l’aria / Chiedimi ancora perché il nome è Pakartas": è ciò che recita una delle barre di "Non Scherzare", brano che ancora oggi, racconta il disagio e la rabbia di Paky. Il rapper di origine campane ha deciso di sorprendere il suo pubblico durante il live all'Alcatraz di Milano, con una scenografia che rappresenta a pieno il suo personaggio. Paky ha inscenato ciò che realmente significa il suo pseudonimo, impiccato in italiano, traduzione indotta dal lituano "Pakartas". Ma l'esplorazione del concetto non si ferma solo al lato estetico: ciò che rimane della rabbia sorda, come definita da Marta Blumi Tripodi, è anche il senso di impotenza del giovane rapper italiano, nel racconto della propria condizione. Il cappio alla gola, anche in passato utilizzato nell'immaginario musicale, ha raccontato questo forte senso di disagio verso una realtà complicata da processare, come solo alcuni anni prima nel video di "Look at me" del compianto XXXTentacion: allora le immagini fecero scalpore per la descrizione violenta, non solo dettata dalla finta impiccagione del rapper, ma anche per quella di uno dei due bambini di etnie diverse, costretti a osservare la violenza del gesto con l'ingenuità dei propri anni.
Altri mondi, altri paralleli, ma Paky ha "costretto" il proprio pubblicare ad ascoltare le proprie grida d'aiuto. Quelle di un quartiere che porta sulle proprie spalle, come la torre della Telecom di Rozzano, simbolo di unità nella sua prima hit "Rozzi", ma anche di un disagio sociale che ha accelerato il processo di aggregazione tra gli abitanti, non sempre positiva. L'aspetto crudo, quasi fastidioso per la sua naturale violenza, della sua musica riflette non solo nei testi, ma anche nella riproposizione delle stesse immagini. Paky non ha abbandonato Rozzi e la sua quotidianità, le sue storie e il suo disagio: il suo successo con "Salvatore" non ha minimamente smosso la sua percezione della realtà esterna e le prove vengono mostrate agilmente sul palco. Quello che sale sul palco, mentre viene calato un cappio dall'alto, è lo stesso Paky che ritroveremmo tra le strade di Rozzano. E in onore di quelle strade ha deciso di esibirsi in un rituale, quasi macabro alla vista, di una condizione mentale che non avrebbe avuto migliore rappresentazione pratica.
E allora l'impiccagione diventa il rantolo, sul palco, di una realtà cruda, che vede in lui uno dei cantori, consapevole, che però il racconto non cambierà le condizioni. Non c'è alcuna premessa, dalla violenza delle parole si passa a quella delle immagini, con Paky che nella stessa sera in cui registra 3500 paganti, invita sul palco Guè, Luché, Marracash e Shiva, recita una delle richieste d'aiuto più limpide nella sua musica. Solo qualche anno prima, legandosi al tema del razzismo sistemico negli Stati Uniti, all'influenza ancora presente del KKK nella cultura americana, XXXTentacion aveva utilizzato l'espediente dell'impiccagione per raccontare la percezione della rabbia della popolazione black negli Stati Uniti, legandola anche al concetto della "banalità del male": infatti dopo aver riproposto la scena dell'impiccagione, mentre scorrevano le immagini della police brutality che aveva colpito persone nere, alla fine del video ha utilizzato la reazione ingenua di un bambino all'impiccagione di un suo coetaneo di etnia diversa. La riflessione è ancora attuale, e l'espediente utilizzato nel video musicale da XXXTentacion è ancora strumento di discussione nel contesto della percezione della violenza e del razzismo nella nuova generazione statunitense.