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Perché Franco Battiato non era semplicemente un cantautore

Franco Battiato è stato un maestro, tutto quello che vorremmo vedere in un artista: la sperimentazione, la capacità di essere avanguardia, quella di prendere i canoni di un genere e rileggerli, ricanonizzarli, come lui ha fatto col pop, la voglia di non sedersi mai sulla notorietà. Ritratto un artista d’avanguardia che si è fatto pop.
A cura di Francesco Raiola
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Franco Battiato è stato tutto quello che vorremmo vedere in un artista: la sperimentazione, la capacità di essere avanguardia, quella di prendere i canoni di un genere e rileggerli, ricanonizzarli, come lui ha fatto col pop, la voglia di non sedersi mai sulla notorietà – per lui, stando a chi lo conosce, è impossibile -, anzi rilanciare sempre un po' più in là l'asticella del possibile. E riuscire comunque a essere popolare, a scrivere grandi inni conosciuti da tutti.

Battiato, scomparso oggi, dopo una lunga malattia, era un cantautore, certo, ma era anche un artista a tutto tondo – musicista, pittore, regista -, coltissimo ma popolare, in grado di infilare nelle sue canzoni termini completamente desueti o fuori dal senso comune e di farlo senza mai risultare stucchevole, anzi facendo della parola veicolo di conoscenza, incastro perfetto di un puzzle che vedeva il colto usato per il suo pubblico, in maniera funzionale, mai spocchiosa. Dal Tibet all'Iran, il Medio Oriente e la sua Sicilia, artista generosissimo e adorato dai colleghi, ispirazione per tantissimi giovani artisti.

Esistono tanti Franco Battiato, tante sfaccettature, tante epoche, esiste il Battiato prog, esiste quello rock, elettro, pop, cantautorale. Esistono un'infinità di Battiato, tante quante sono le emozioni che in questa vita è riuscito a regalare ai suoi ascoltatori. Ha scritto canzoni che oggi sono un caposaldo della musica italiana, ha scritto canzoni che in tanti non conoscono, ma che sarebbe bello potessero tornare prepotentemente nella vita di chi ha amato le sue cose più note, ha scritto cover che ormai vanno al di là del concetto di cover, avendo ormai una vita propria, esiste il Battiato mistico, quello delle canzoni iraniane, quello di Shock in my town, l'avanguardista, quello di quel trittico fenomenale che sono stati "L'era del cinghiale bianco", "Patriots" e "La voce del padrone".

Quando qualche anno fa (un bel po' di anni fa, ormai) riascoltai il Battiato pre-cose-che-conosciamo-tutti ne rimasi incantato. Come si resta incantati dai bianchi di Battisti, per dire, o dalla scoperta dell'esistenza di Enzo Carella. Una sorpresa che nel caso di Battiato ingigantiva ancora di più (si può? Chissà) la sua statura. Se esistesse un Olimpo lui sarebbe senza dubbio lì, dio tra i pochi dei che dall'alto guarda, sempre curioso, quello che avviene sotto di lui, ripercorrendo, perché no, la strada che lo ha visto sperimentare, "poppeggiare" ("E più si cresce e più mestieri nuovi, gli artisti pop, i manifesti ai muri"), cambiare, parlare di passaggi, di prospettive, mai piegarsi, scioccare.

Era il 1972 e in quel capolavoro che è Fetus c'era una canzone che si chiama "Una cellula" e per chiudere un pezzo su di lui: "Cambieranno le mie cellule e il mio corpo nuova vita avrà. Le molecole che ho guaste, colpa dell'ereditarietà, sarò una cellula fra motori. Come una cellula vivrò. Viaggeremo più veloci della luce intorno al sole, come macchine del tempo contro il tempo che non vuole. Sarò una cellula fra motori come una cellula vivrò". Addio Maestro e grazie per la musica che ci hai lasciato.

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