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Mannarino: festa popolare

Per ragioni difficili da comprendere, non si parla granché di quanto il cantautore capitolino sia un animale da palco. Eppure, il tour con il quale sta tuttora portando su e giù per la Penisola il suo terzo album “Al monte” è uno degli spettacoli più convincenti dell‘anno.
A cura di Federico Guglielmi
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Domenica scorsa, il tour estivo di Alessandro Mannarino ha fatto tappa nella Roma che dell'artista è la città natale: stadio del tennis gremito in ogni ordine di posti e obbligo per il management di fissare una nuova data – 11 settembre, nella stessa cornice – per accontentare chi è rimasto fuori a causa del sold out e tutti coloro che vorranno rivivere quella che è stata certamente una festa. Due ore e mezza di musica e spettacolo dove le esigenze sceniche e il trasporto emotivo legati al secondo non hanno soffocato lo spessore e la brillantezza della prima ma li hanno, anzi, esaltati. I meriti vanno suddivisi fra il protagonista, performer ormai rodatissimo, e il formidabile ensemble di undici elementi che lo affiancava: un florilegio di chitarre, fisarmonica, archi, fiati, basso e contrabbasso, batteria e percussioni, tastiere e cori (menzione d‘onore per la bravissima Simona Sciacca, cui sono stati riservati pure spazi da vedette) perfetto per rimarcare l‘impronta bandistica di ampi stralci del repertorio, ma evitando di scivolare – come capita a più d‘uno – in caciare da sagra paesana. In questo set, invece, tutto è impetuoso e trascinante ma misurato, bilanciato e suggestivo, proprio come un palco dove le luci sobrie e un allestimento giocato su pali del telefono, un ponticello da giardino giapponese e alberi scheletrici accompagnano una policroma giostra di cambi di posizioni, di strumenti e di abiti. Azzeccatissime, poi, le sporadiche e mai forzate apparizioni di personaggi mascherati, a ribadire la sintonia del Nostro con la dimensione teatrale.

Mannarino-Auditorium-Roma
Mannarino al Foro Italico (Foto di Paolo Palmieri)

Per Mannarino, insomma, non vale il detto “nemo propheta in patria”. La platea dell'Urbe, nella circostanza variegata sotto il profilo anagrafico e in larga parte femminile, ha esternato con canti, salti, balli e grida di incitamento l'amore per il concittadino. Lui, a tratti commosso, l'ha ripagata dando fondo a ogni sua energia e terminando il concerto stanco e piuttosto rauco, ma felice. E, comunque, lucidissimo, anche nel rivolgere ”saluti rispettosi” alla Banda Bassotti presente nel parterre; un sincero tributo al gruppo che è un autentico monumento del rock antagonista non solo capitolino, ambito del quale il quasi trentacinquenne cantautore, benché con modalità peculiari, è indubbiamente una figura significativa. Al di là dell'indole frizzante di alcune trame sonore e di qualche atteggiamento gigionesco, infatti, il titolare di “Bar della rabbia”, “Supersantos” e “Al monte” ha molto a cuore un messaggio politico e sociale di critica – dotta, non sloganistica e imbevuta di ironia – alle deviazioni del potere, sia esso politico, culturale o religioso; non sempre “in direzione ostinata e contraria”, come il Maestro cui Alessandro proverebbe forse imbarazzo a essere accostato, ma intensa, profonda, genuina. E toccante in maniera positiva, sebbene i temi affrontati siano spesso, e non potrebbe essere altrimenti, amari.

È stato coraggioso e lungimirante, Mannarino, ad assecondare in fretta la sua vena espressiva “alta”, prendendo un po' le distanze dall‘immaginario etilico e magari troppo ruspante dei brani – uno su tutti, “Me so‘mbriacato” – con i quali ha ottenuto i primi, veri consensi fuori dal GRA; considerati i pregiudizi imperanti sulla romanità, il rischio concreto era quello di non riuscire a scrollarsi di dosso un'etichetta riduttiva e fuorviante, come accad(d)e ad esempio al Piotta di “Supercafone”. Senza ripudiare la comunicazione diretta e all'occorrenza esuberante, né tantomeno la sua vocazione da menestrello folk cosmopolita, Alessandro ha saputo trovare la giusta via di mezzo tra l'erudito e il popolare, tra il rigoroso e l‘istintivo, tra il serio e il faceto; persino una sua personale “tristallegria”, per dirla con le parole di un altro maestro. Può ancora crescere e di sicuro lo farà, ma quella che intanto sta raccogliendo è già vera gloria.

La scaletta del concerto

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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