Essere figli d’arte è di solito una brutta gatta da pelare, ma essere “fratelli d’arte” è probabilmente peggio. Specie quando il campo di azione è proprio lo stesso e quando, da maggiore, si è messi in ombra dal più piccolo, per il quale si è stati un esempio e al quale non solo si sono insegnate tante cose, ma si è addirittura data una spinta decisiva per avviare una poi eccezionale carriera. Luigi è nato sette anni e un giorno prima di Francesco, e dalla prima metà dei ’70 soffre il fatto di essere “l’altro” De Gregori. In realtà lui giura di non avere alcun problema, ma credergli fino in fondo è un po’ difficile: certo non nutre astio né invidie, come dimostrato dalle (pur centellinate) collaborazioni in coppia, ma qualche minimo disappunto sarebbe comprensibile; Francesco avrà pure più talento, più carisma e più “malizia” di Luigi, ma a far gridare vendetta è l’enorme sproporzione in termini di successo. Perché Luigi è un ottimo musicista, ha gusto e scrive canzoni di qualità, e che la sua fama sia circoscritta a pochi affezionati, mentre Francesco è una stella di prima grandezza, sembra ingiusto. Allo stesso modo, è ingiusto che il De Gregori più anziano sia spesso snobbato a priori, come se se quello che fa lo facesse in quanto “raccomandato”; lo so molto bene visto che anch’io, illo tempore, sono scivolato nell’equivoco.
Nel 1977 la Marvel Comics, ispirandosi a un racconto di Isaac Asimov, lanciò la serie a fumetti “What If…?”, nella quale si ipotizzavano sviluppi alternativi delle vite dei super-eroi legate al verificarsi o al non verificarsi di alcuni eventi. Beh, pensandoci viene da domandarsi cosa sarebbe cambiato se sul finire dei Sixties, quando cominciò a esibirsi sul palco dello storico Folkstudio, Luigi non avesse scelto di adottare lo pseudonimo Ludwig e si fosse invece presentato con le sue generalità anagrafiche; Francesco avrebbe di sicuro cercato un altro nome da cui sarebbe stato forse penalizzato, mentre Luigi non sarebbe stato “costretto” a ripiegare sul cognome della mamma – Grechi – quando nel 1976, con il fratello che ne aveva già pubblicati quattro e raccoglieva consensi quasi plebiscitari con “Rimmel”, realizzò il suo 33 giri d’esordio “Accusato di libertà”. “Costretto”, ovviamente, da se stesso e dalla sua onestà intellettuale, perché qualcuno lo avrebbe accusato di voler seguire la scia di Francesco e questo no, sarebbe stato troppo. D’accordo, anche in quei lontanissimi giorni in cui Internet era fantascienza si trattava di un segreto di Pulcinella, ma contava il gesto: non un rifiuto, non un distacco polemico, ma – paradossalmente, viste le circostanze – un’affermazione di identità. E poi Luigi non vedeva la musica come una professione: contava di proseguire nell’attività di bibliotecario intrapresa dopo aver lasciato Roma per Milano. I programmi del destino erano però diversi e a quell’album ne sarebbero seguiti numerosi altri. Sarebbe stato solo con l’ottavo, non contando una cassetta, un EP e una raccolta di auto-cover dalla diffusione carbonara, che il cantautore avrebbe preso la storica decisione di affiancare al “Grechi” il sacrosanto “De Gregori”: è accaduto nel 2012, a sessantotto anni, con “Angeli & fantasmi”.
Da qualche giorno è in circolazione un nuovo disco di Luigi “Grechi” De Gregori che esattamente nuovo non è, dato che i suoi diciotto episodi sono recuperi dagli ultimi tre lavori (“Pastore di nuvole” del 2003, “Ruggine” del 2007 e, appunto, “Angeli & fantasmi”); la metà di essi erano però riletture di brani più vecchi e allora “Tutto quel che ho 2003-2013”, sul quale è impresso il marchio della Caravan di Francesco, è in effetti un’antologia dell’intero percorso dell’artista, cui si possono magari rimproverare discontinuità e “pigrizia” (il repertorio, a ben vedere, è quantitativamente esiguo) ma non carenze di ispirazione o incisività. Più che eloquente, in tal senso, una scaletta dove musiche aggraziate ma ruspanti in sintonia con il folk-rock americano si legano a testi di rilevante spessore autoriale, all’insegna di uno storytelling che oscilla fra evocatività e protesta. Poi, sì, strutture e approccio canoro rimandano in modo diretto al De Gregori più famoso, benché i testi non siano ermetici e la voce sia più ruvida e meno duttile; è comunque innegabile che la celebre hit – nell’interpretazione di Francesco, però – “Il bandito e il campione”, “Al primo canto del gallo”, “Al falco ed al serpente”, la magnifica “Chitarrista cieco” o “Il fuoco e la danza” (che rende omaggio al classico “Will The Circle Be Unbroken”), per citarne alcuni, brillino di luce intensa. E luce propria, al di là di ogni questione di parentela.