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Lo Stato Sociale: la grande bruttezza

È in circolazione da ieri il nuovo disco de Lo Stato Sociale, uno dei gruppi più controversi del panorama pop-rock italiano, specchio fedele degli strani giorni che stiamo vivendo.
A cura di Federico Guglielmi
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Sono ormai trascorsi quasi ventotto mesi da quando Lo Stato Sociale pubblicò per la Garrincha Dischi il suo primo album “Turisti della democrazia”, arrivato dopo due EP – “Welfare Pop” e “L‘amore ai tempi dell‘Ikea” gli esplicativi titoli – che non avevano mancato di suscitare curiosità nel nostro circuito alternativo. Da quel febbraio 2012, la band nata a Bologna da un‘idea di tre DJ di Radiocittà Fujiko è stata protagonista di un'ascesa folgorante: concerti a iosa, vari premi, una riedizione dell‘esordio arricchita da un secondo CD di cover e remix (fra gli interpreti: 99 Posse, Gazebo Penguins, Giovanni Gulino dei Marta sui Tubi, Ex- Otago, Nicolò Carnesi, L‘Officina della Camomilla). Inoltre, un videoclip girato con l‘iPhone di “Sono così indie” – un pezzo, va ammesso, piuttosto arguto nell‘ironizzare sui vizi della “scena” – cui hanno offerto (pur minimi) contributi un notevole numero di artisti seri: citando a memoria, Federico Fiumani dei Diaframma, Giorgio Canali, Ufo degli Zen Circus, Perturbazione, Mariposa, A Toys Orchestra, Caparezza, tutti assieme appassionatamente a celebrare, con l'alibi del ”in fondo che male c'è?”, una delle esperienze musicali (?) più inconsistenti e irritanti del rock italico dall‘inizio del Terzo Millennio. A rigor di logica, gruppi e solisti che a lungo hanno raccolto briciole per portare avanti con fatica discorsi di spessore dovrebbero deplorare questi loro cinque improbabilissimi colleghi che stanno diventando stelle (si spera presto cadenti) grazie al cazzeggio, alle facce di bronzo e al cattivo gusto. Invece, per superficialità, per timore di essere reputati snob, perché rifiutare pare poco educato e perché, alla fin fine, “cane non mangia cane”, si prestano al gioco.

A scanso di equivoci, non credo affatto che i ragazzi de Lo Stato Sociale siano degli idioti. Anzi, tutto il contrario: sono intelligenti, furbi, paraculi. Si sono trovati per caso nel ruolo di attrazione principale del Circo e, come farebbe chiunque altro, cercano di capitalizzare il momento magico riutilizzando le armi che finora sono risultate efficaci. Evidentemente, al pubblico non importa che il sound sia scontato e cacofonico, che le voci gracidanti indispongano, che i testi – al di là di qualche spunto azzeccato: è la legge dei grandi numeri – brillino per vacuità e (spesso) trivialità, che le canzoni sembrino parodie. Che il trash paghi non è una novità, e dato che in tale ambito Alberto Cazzola (voce, basso), Lodovico Guenzi (voce, chitarra, piano, synth), Alberto Guidetti (drum machine, synth, voce), Enrico Roberto (voce, synth) e Francesco Draicchio (synth, voce) se la giocano con i fratelli Vanzina, perché stupirsi? Quando poi si mischiano le carte spacciando umorismo di grana grossa per iconoclastia, e si inseriscono abilmente citazioni “alte” che possono far pensare a sottili esercizi intellettuali, la possibilità di vincere su tutti i tavoli diventa concreta. Appunto.

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La notizia di stretta attualità è che i nostri eroi hanno appena pubblicato, sempre per la Garrincha, il sequel di “Turisti della democrazia”: si intitola “L'Italia peggiore” ed è uscito il giorno della Festa della Repubblica, un po' come Dente che commercializzò “L'amore non è bello” proprio a San Valentino. Una conferma che quello de Lo Stato Sociale non è più una sorta di sasso gettato nello stagno per vedere l'effetto che fa, ma il tentativo di speculare sull'inatteso successo alzando se possibile ancor di più l'asticella del raccapriccio. Arduo trovare le parole idonee a descrivere autentici orrori come “Forse più tardi un mango adesso” o “Questo è un grande paese“ (ospite Piotta), la disarmonia di certe accozzaglie di ritmi dance, umori esotici e pseudo-rap, il senso di disagio evocato da cori molesti e slogan da cottolengo. Per come la vedo io, l‘invito di Giuseppe Civati ad acquistare “C‘eravamo tanto sbagliati” (peraltro, uno dei momenti “migliori”) è l‘ennesima dimostrazione di come Giorgio Gaber non sbagliasse affermando che “la politica è schifosa e fa male alla pelle”, e la scelta di donare a Emergency le royalties delle copie vendute nelle prime due settimane un comunque utile specchietto per le allodole (sceme). Insomma, un album perfetto per la nostra povera patria, o, meglio, per la sua parte peggiore. Che purtroppo, quantomeno giudicando dai "like" su Facebook, è parecchio popolata.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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