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Ligabue: il “Made In Italy” che suona americano

Anche se appare evidente che non potrebbe essere di nessun altro, è impossibile affermare che “Made In Italy” sia “il solito disco di Ligabue”. Provare per credere.
A cura di Federico Guglielmi
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Ligabue (foto di Toni Thorimbert)
Ligabue (foto di Toni Thorimbert)
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Come credo di aver scritto in almeno un’altra occasione, ho un rapporto non proprio facilissimo con Luciano Ligabue. Non sul piano personale, eh: d’accordo che per vari motivi sono già alcuni anni che purtroppo non si presenta l’occasione di scambiare due chiacchiere, ma tutti i nostri vecchi incontri sono sempre stati piacevolissimi. Il problema è di carattere artistico ed è ovviamente legato alla mia professione; più precisamente, alla mia incapacità di accettare il fatto che uno come lui, che ama il rock giusto e sa scrivere canzoni, non abbia voglia di rischiare e continui a reiterare – con piccole variazioni, che però il suo pubblico sa cogliere di rado – la formula che gli ha dato il Successo, quello con la “S” maiuscola. Mi piacerebbe, una volta, vederlo osare sul serio, cioè realizzare quel disco magari per pochi, ma di spessore, che secondo me giace in qualche angolino buio della sua mente, ma niente da fare; lui ama troppo piacere alla massa, arrivare a tutti e non solo a quei “duri e puri” che sicuramente lo schiferebbero comunque per le precedenti relazioni pericolose con l’odiata musica nazionalpopolare. Non lo biasimo e, anzi, lo capisco: in pratica, Ligabue è una holding che nutre un sacco di gente, e l’insuccesso che eventualmente dovesse consumarsi avrebbe ripercussioni ben più pesanti per “l’indotto” che non per l’uomo al comando, l’Atlante munito di chitarra e microfono sulle spalle del quale poggia il (suo) mondo. Però, accidenti, possibile che non ceda mai alla tentazione di (provare a) spiazzare con le canzoni invece che con quei concerti-happening via via più faraonici che ormai, tra l’altro, hanno smesso da tempo di sorprendere? Non pretenderei (e nemmeno lo vorrei) un disco hip hop o d’avanguardia, non sarebbe nelle sue corde, ma uno slancio di autentico coraggio in più, un bel “kick out the jams, motherfuckers!” urlato non solo a sé stesso ma a tutti coloro che da una ventina d’anni lo deridono perché “compone solo due generi di pezzi”, perché “si atteggia a rocker ma suona pop” e a causa del sistematico allungo delle vocali in chiusura dei versi… beh, sarebbe auspicabile.

Che poi, va detto, Luciano ci prova, a immettere linfa con qualche elemento diverso, qualche altro colore. L’ha fatto pure in “G come giungla”, la prima anticipazione del nuovo album risalente a settembre e certo non un classico brano “alla Ligabue”, che all’inizio disorienta ma che dopo un po’ si fa apprezzare con la sua andatura incalzante e ipnotica e i suoi rimandi a svariate gloriose tradizioni dell’America “black”. Peccato che, due mesi più tardi, il secondo singolo – la title track di “Made In Italy”, da oggi 18 novembre nei negozi fisici e virtuali – abbia ucciso le speranze degli ottimisti, bruciandone poi il cadavere e disperdendone le ceneri; meritoria l’idea di tributare, nel testo, una sorta di inno alla nostra stupenda e disastrata Penisola, ma tutti sanno come la strada per l’inferno sia lastricata di buone intenzioni. Però, ecco, due pezzi su quattordici possono costituire solo un indizio, e se si contraddicono tra loro nemmeno quello; e, come si diceva, nei dischi di Ligabue il tentativo di alzare l’asticella non è (quasi) mai mancato, benché con i vincoli – sia autoimposti, sia dettati dalle contingenze – cui si è accennato righe sopra. Perché non concedere un po’ di fiducia, dunque, alla scelta di dare a “Made In Italy” la forma di concept, con un unico tema a svilupparsi e snodarsi attraverso tutte le tracce? Non è un mistero che il Liga sia un ragazzo degli anni ’60 diventato adulto nei ’70, con sulle spalle il bagaglio dei vari “S.F. Sorrow”, “Tommy”, “Ziggy Stardust”, “Quadrophenia” o “The Lamb Lies Down On Broadway”, e non c’è da stupirsi che abbia voluto cimentarsi con lo stesso approccio narrativo – ma in modo assai più rigoroso rispetto al passato – inventando la vicenda privata e pubblica del protagonista Riko, sorta di ipotetico “altro” Ligabue con connotati del Ligabue reale, quello nato a Correggio il 13 marzo 1960. Un esperimento sulla carta stimolante che si suppone  destinato al plauso dei fan, per definizione bovinamente acritici, e al feroce linciaggio dei detrattori, per i quali il Nostro non è mai stato degno di attenzione oppure, a voler essere di manica larga, ha perso ogni diritto di ottenerla dopo i fasti commerciali di “Buon compleanno Elvis”.

Ma allora com’è, nella sua interezza, “Made In Italy”, che non contando né il mini “A che ora è la fine del mondo”, né la colonna sonora di “Radiofreccia”, è il decimo album di studio di Ligabue in ventotto anni di carriera discografica? Molto, molto meglio di quanto sarebbe stato lecito temere. Parte brillantemente con “La vita facile”, nella quale ogni appassionato rileverà efficacissimi echi Who, e va avanti in modo convincente, con pochi scivoloni e un piglio vivace e ispirato, con logico alternarsi/susseguirsi di brani ricchi di energia e momenti pacati ed evocativi. È rock’n’roll, ma è un rock’n’roll che non avversa – anzi, che asseconda al massimo – le commistioni con blues, funk, R&B e soul (più Stax che Motown, direi, più Memphis che Detroit o Chicago), evitando le sonorità plastificate e puntando soprattutto su tastiere e fiati non solo caldi, scintillanti e suadenti, ma anche assolutamente credibili. Chiaro, e non potrebbe essere altrimenti, che suggestioni, riferimenti e “saccheggi” sono filtrati alla luce della sensibilità ormai collaudata del loro interprete, che la voce non esce dal suo abituale seminato, che i testi in italiano – più interessanti del solito: il contesto aiuta – non hanno lo stesso fascino che avrebbero se fossero in inglese, ma dalla scaletta emergono episodi di pregio: oltre a “La vita facile”, si potrebbero citare la funkeggiante “Mi chiamano tutti Riko”, la vigorosa “L’occhio del ciclone”, la stuzzicante ballad “Ho fatto in tempo ad avere un futuro”, la lieve “Apperò” e, in fondo, persino la sbarazzina, caraibica “I miei quindici minuti” ha il suo perché. Al di là del songwriting, in ogni caso, piace la cura certosina riservata alle trame strumentali, molto più elaborate e raffinate di quanto possa comprendere chi si limita a “seguire” la musica senza ascoltarla per davvero (perché non abituato a farlo o perché privo del necessario “know how”). Si ha tuttavia l’impressione che i cambiamenti di “Made In Italy” saranno avvertiti pure dai più distratti e superficiali, e chissà come saranno recepiti. Di sicuro, si scusi l’apparente gioco di parole, questo è il disco di Ligabue che, pur essendo inequivocabilmente un disco di Ligabue, sembra un disco di Ligabue meno di qualsiasi suo predecessore. Lo prendo come un segnale positivo, lodo lo sforzo e attendo di scoprire come tutto ciò troverà sbocco nei prossimi concerti.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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