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Festival di Sanremo 2019

Le canzoni di Sanremo 2019, meno amore per Claudio Baglioni: al Festival migranti e autotune

Abbiamo ascoltato i pezzi che saranno in gara al Festival di Sanremo 2019. I testi contengono un numero minore di riferimenti all’amore e aprono a tematiche importanti, fenomeni sociali come quello dei migranti. Il padrone di casa Claudio Baglioni apre le porte alla fruizione dell’autotune e commenta: “Abbiamo cercato la bellezza, la bizzarria, la vitalità e forse la sincerità e la verità”.
A cura di Francesco Raiola
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“Abbiamo cercato la bellezza, la bizzarria, la vitalità e forse la sincerità e la verità. C’erano temi diversi, trattati contemporaneamente e la somma è stata, come procedimento, di badare a questi aspetti. Come tutte le scelte, nessuno è infallibile, ma la legge è dura ed è questa” ha detto Claudio Baglioni durante gli ascolti delle canzoni per la stampa, spiegando un po’ le sue scelte. Dal 5 al 9 febbraio si ascolteranno sul palco di Sanremo 2019, mentre chi ha potuto farlo prima ha sentito le versioni in studio. La scelta di Baglioni di aprire un po’ più a gruppi e artisti giovani ha portato sicuramente meno amore e più testi sociali. C’è sicuramente una componente di questo tipo più forte: viene toccato più volte il tema dei migranti non senza polemiche, anche con Salvini, come avevamo scritto ieri, c’è il tempo che passa – tema sempreverde – dipanandosi anche nel confronto tra generazioni, anche se non manca l’amore che a naso ha assunto però meno peso specifico.

Ci sono testi senza ritornello, ad esempio: “Spero che venga recepita come un’idea per l’avvenire del festival, che possa guadagnare in novità. Spero che sia locomotiva e no vagone, senza adagiarsi sul già saputo” ha ribadito Baglioni che ha spiegato, evitando di commentare i brani singolarmente: “C’è molto disagio, e anche nei brani più leggeri, forse è l’imbarazzo che viviamo tutti anche nella difficoltà di sapere dove fermarsi e anche avere un pensiero terzo che sia più dubbioso. Vincono più i dubbi che le certezze in questi testi”. Abbiamo provato a darvi un’idea dei pezzi che ascolterete: è sempre difficile parlare di canzoni ascoltate una volta, per questo le mani sono avanti, di seguito qualche impressione, invece.

Nek (“Mi farò trovare pronto”): Scritta con Paolo Antonacci e Luca Chiaravalli, Nek naviga le sue acque note e butta giù un testo d’amore che non ha enormi spunti per quanto riguarda il testo, con un po’ di rime scontate. Ma sorprende nello sviluppo musicale , partendo con un piano e synth à la Nek, ma che a si apre EDM. Sarà interessante ascoltarlo con l’orchestra Rai alle spalle. Pezzo che punta ai passaggi radio…

Nino D’Angelo e Livio Cori (“Un’altra luce”): Per il suo ritorno sanremese, Nino D’Angelo sceglie Livio Cori e una canzone che mescola il napoletano all’italiano, con l’ex caschetto biondo a farsi carico del dialetto del suo collega giovane. Il loro è un racconto generazionale, anzi di due generazioni diverse e le sonorità sono quelle più vicine a Cori e all’urban soul. Se vi aspettate un D’Angelo noto sarete sorpresi, anche se la sua voce resta inconfondibile, mentre Cori porta l'autotune sul palco dell’Ariston.

Ultimo (“I tuoi particolari”): Vincitore dell’ultima edizione di Sanremo Giovani, Ultimo parte come uno dei favori per la prossima edizione, soprattutto grazie a un 2018 fenomenale per quanto riguarda i numeri e il riscontro del pubblico. “I tuoi particolari” è un pezzo scritto di suo pugno, un brano che canta la mancanza (del padre?): “È da tempo che cucino e metto sempre un piatto in più per te”. Il piano regge la voce del cantante che prende respiro nel ritornello, il pezzo piacerà a chi è suo fan e chi apprezza un futuro in cui continua a percorrere la strada più romantica e cantautorale.

Zen Circus (“L’amore è una dittatura”): Se la giocano senza paura e a viso aperto gli Zen, che portano un testo lungo, pieno di parole, senza ritornello (sic), con un tic toc carillonato che segna l’incedere del tempo. Non potevano, conoscendo la loro storia non parlare di quello che ci circonda e anche loro parlano di porte aperte e porti chiusi (e non sono gli unici, vedi Negrita). Senza farsi ingannare dall’”amore” del titolo Appino e soci parlano di topi, sangue, anarchia e di chi arriva né per chiedere soldi, né per derubare o soffiare il posto di lavoro. Una lunga filastrocca con la batteria di Karim che segna il tempo e la voce di Appino che come sempre dà il senso dell’urgenza. Sono gli Zen Circus come li conosciamo. E coraggiosi.

Shade e Federica Carta (“Senza farlo apposta”): Dopo il successo incredibile di “Irraggiungibile” Shade e la Carta ci riprovano con una formula che non cambia tantissimo, tra amore fuggito via, telefonini e giochi di parole (“Dammi il mio panico quotidiano”) siamo ancora nei territori amorosi, su una base che mescola l’andamento rap affidato a Shade e il versante più pop del ritornello alla Carta, con un temporale iniziale che si sente sullo sfondo di un piano che dà la rincorsa alla voce di Shade che fa partire un pezzo che parla di amarezza, bugie, lune storte: un amore struggente e non corrisposto.

Arisa (“Mi sento bene”): È un’Arisa che gioca con il tempo riportando i piedi sulla terra, però. Senza un’intro strumentale (almeno nella versione ascoltata), il pezzo parla del suo benessere, di ciò che appunto la fa stare bene, ma non perde un tocco di malinconia (Cosa ne sarà dei pomeriggi al fiume da bambina, degli occhi di mia madre”) con una musica che dopo un’intro d’attesa, fiabesco, si prende il suo spazio e si cuce a misura sull’Arisa più allegra e ballabile.

Simone Cristicchi (“Abbi cura di me”): “Abbi cura di me” segna il ritorno di Cristicchi sul palco dell’Ariston. Un ritorno atteso che non deluderà chi si aspettava profondità e un uso sapiente delle parole. “Non esiste un giorno che sia uguale a ieri” dice Cristicchi in una ballata che aggiunge gli archi all’immancabile piano, un brano che parla del tempo che fugge e dell’importanza di goderselo, dell’importanza di perdonare e dell’amore. Si gioca la palma del testo più intenso di parole con Zen e Silvestri.

Achille Lauro (“Rolls Royce”): Era senza dubbio uno dei testi più attesi e in effetti Lauro non si smentisce, portando se stesso sul palco dell’Ariston, con frasi brevi e riferimenti continui ai grandi del rock, voglio una vita così. Più che trap, però, Achille Lauro, con una chitarra che non lascia respirare e una batteria in 4/4 gioca più con gli stilemi rock che con la trap, che troviamo negli spruzzi di autotune, in una varietà che chi conosce il suo album non potrà non riconoscere. Per niente sanremese, a meno che non abbiate Vasco anni 80 come riferimento, anche se forse poteva osare un po’…

Francesco Renga (“Aspetto che torni”): Francesco Renga fa Francesco Renga e a Sanremo non cerca di spiazzare, anzi rafforza la sua immagine e con la sua voce inconfondibile che canta una ballad in cui da una parte fa riferimento alla madre, alla sua mancanza (“Cerco ancora nei miei occhi, il sorriso di mia madre”) e dell’importanza che ha sempre per lui, ma che parla anche del suo amore odierno. Le parole sono di Bungaro.

Negrita (“I ragazzi stanno bene”): Il ritorno dei Negrita riporta al rock, a quello di ispirazione americana. Pau: “Per far pace con il mondo dei confini e passaporti, dei fantasmi sulle barche e di barche senza un porto” con riferimenti neanche tanto velati a Matteo Salvini, il “comandante a cui conviene il gioco sporco”.

Einar (“Parole nuove”): Einar rappresenta proprio quel genere che si potrebbe chiamare “talent pop”, ovvero quella categoria che nella musica e nei testi ama ripetersi. È il pop che unisce molti giovani usciti dai talent, innocuo, senza il tentativo di sorprendere, ma che evidentemente rassicura anche i più giovani. Ah, si parla d’amore.

Patty Pravo e Briga (“Un po’ come la vita”): La voce di Patty Pravo ci porta subito dentro al suo mondo. Ci rassicura, senza dubbio e Briga riesce in un meccanismo non semplice, quello di entrare perfettamente nel mondo della cantante (è questo che avviene), anche vocalmente. Ed è un merito per lui, anche se si perde quello che forse poteva portare, ovvero un tocco di pazzia, quel qualcosa rap che arriva quasi alla fine mannon cambia granché. Nel complesso il pezzo ci sta, non resterà nella Storia, ma conforta, appunto.

Daniele Silvestri (“Argento vivo”): L’argento vivo di Silvestri è quello, probabilmente, di un bambino a cui è stato diagnosticato un deficit d’attenzione, troppo attivo, e di conseguenza sedato nel corpo ma non nella mente. Un pezzo arrabbiato che vede anche il rap di Rancore (che sarà presente tutte le sere) ad accompagnare il cantautore romano. Silvestri non smentisce e ama lasciare una traccia ogni volta che passa per Sanremo. Ci riesce ancora una volta.

Boomdabash (“Per un milione”): Veri dominatori delle classifiche del 2018, soprattutto quelle dei singoli con “Non ti dico no” assieme alla Bertè, la band salentina porta sul palco dell’Ariston un po’ di reggaeton, fedeli alla propria linea. Un reggae che vede anche la firma di Rocco Hunt e in effetti si sente il gusto del rapper salernitano, molto radiofonica, soprattutto dopo aver allenato i palati l’estate scorsa.

Anna Tatangelo (“Le nostre anime di notte”): Anna Tatangelo sceglie di tornare con un brano che non risente della sua collaborazione con Achille Lauro ma rientra nei lidi conosciuti per i suoi fan, con un pezzo pop, tradizionale, che a un primo ascolto potrebbe riportare in mente le sue storie personali, con le incomprensioni tra due amanti che nel tempo crescono, ma che col tempo, appunto si possono rimarginare.

Mahmood (“Soldi”): Arriva il pezzo che non ti aspetti, con Mahmood che si fa accompagnare nella parte musicale da Dario Faini, aka Dardust e da Charlie Charles, produttore Re Mida della trap italiana (Ghali e Sfera) e infatti il suo pezzo porta una sensibilità diversa sull’Ariston, anche lui con autotune spinto e la black music nel sangue e nella voce ma questa non è una novità. E gli va dato merito anche di un pezzo dal titolo più attuale, se si guarda una certa scena. Un po’ mengoniana.

Paola Turci (“L’ultimo ostacolo”): Paola Turci non delude neanche questa volta e riesce a portare un pezzo che pur non stravolgendo, riesce a portare la sua classe in alto anche questa volta, senza fronzoli, ma andando dritta al punto con un testo che parla dell'importanza di avere una guida, qualcuno di cui fidarsi (e che lei vede probabilmente nella figura paterna). Nessuna rivoluzione, ma il conforto di un bello che ci accompagna da tanto, per fortuna e che sarà bello ascoltare sul palco dell’Ariston.

Ex-Otago (“Solo una canzone”): Gli Ex-Otago portano l’It-Pop sul palco dell’Ariston, una quota maggioritaria, ormai, nel Paese, con loro che fanno da alfieri del genere. Un pezzo che piacerà agli amanti di Carucci e della sua voce: “Non è semplice scoprire nuove tenebre tra le tue cosce dietro le orecchie” canta in un pezzo che immette nel Festival un po’ di sensualità

Motta (“Dov’è l’Italia”): Il rumore del mare e un arpeggio introducono quello che è uno dei migliori cantautori della scena italiana. Vincitore dell’ultima Targa Tenco come miglior album, da anni, ormai, Motta si è confermato nel tempo e finalmente anche il pubblico sanremese potrà sentire la sua voce e la sua musica. Motta non perde le sue caratteristiche: l’ossessività del ritornello, ad esempio, è anche qua, ipnotico, per un pezzo che parla di attualità, di partenze (e il mare iniziale ci getta direttamente nel tema della canzone), ma riuscendo a farlo senza retorica, lasciando l'ascoltatore con la possibilità di interpretare, e non perdendosi – per paura di non essere compreso – in quell'aspetto didascalico spesso insopportabile.

Loredana Bertè (“Cosa ti aspetti da me”): Alla Bertè è piaciuto quello che è successo in questi mesi, da quando, assieme ai Boomdabash ha conquistato le radio italiane. E se proprio deve ballare che si continui a ballare così, col ritmo: la sua voce graffiata e una base spinta per un testo che risente della scrittura di Curreri soprattutto (che co-firma con Gerardo Pulli e Pietro Romitelli): “Io non posso credere che esista un altro amore come me”.

Enrico Nigiotti (“Nonno Hollywood”): Nigiotti porta a Sanremo una ballad che parla del tempo che fu. Il cantante usa l’artificio retorico della lettera al nonno ricordando i suoi insegnamenti e un mondo che non esiste più: “Nonno mi hai lasciato in una generazione che non so sentire” dice il cantante ma l’effetto è quello di invecchiare tantissimo e sa di artificio. Non basta la parola “cazzi”.

Irama (“La ragazza con il cuore di latta”): Irama, invece, cerca una strada non scontata per lui, e porta il tema caldo, quello della violenza domestica, di un padre che picchia la ragazza con il cuore di latta. È una storia di solitudine e di rinascita, un cuore spezzato dal dolore e tenuto in funzione da un pacemaker, "una riflessione su quante situazioni tragiche si nascondano dentro ai confini sacri della famiglia".

Ghemon (“Rose viola”): La vera anima soul del Festival è Ghemon, che lo scorso anno ha fatto una comparsata con Diodato e Roy Paci e che questa volta, invece, porta tutto se stesso, la sua voce soul, appunto, il bagaglio di uno degli artisti che in questi ultimi anni è riuscito a trovare popolarità senza seguire strade facili, anzi, guardando all’estero e ridefinendolo in un percorso personale che ci ha portati, ad esempio a Mezzanotte”, il suo ultimo album. Urban soul e black sound, una conferma.

Il Volo (“Musica che resta”): Potevano tentare la strada reggaeton provata per il mercato sudamericano e invece Il Volo ha ripercorso la strada del pop lirico, un po’ meno di “Grande amore”, ma, insomma, siamo da quelle parti là, con un testo a cui ha messo mano anche Gianna Nannini. Insomma, i tre continuano comunque il percorso che li ha portati al successo. E perché avrebbero dovuto cambiare?

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