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Julie’s Haircut: alle porte del cosmo

Il settimo album del gruppo emiliano è appena uscito per una rinomata etichetta britannica. Ci si augura che possa essere la chiave per un serio accesso al circuito estero, nel quale i nostri eroi si troverebbero molto più a loro agio che in quello nazionale.
A cura di Federico Guglielmi
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Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi
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All’inizio dell’autunno del 1999, per la piccola ma molto agguerrita Gamma Pop Records, vide la luce “Fever In The Funk House”, primo album dei Julie’s Haircut che seguiva il promettentissimo 45 giri “I’m In Love With Someone Older Than Me” del 1998. Preceduta di pochi giorni da un altro singolo-killer, “Everyone Needs Someone To Fuck”, l’attesa prova sulla lunga distanza confermò lo spessore della band emiliana con un r’n’r di grande vivacità ed eclettismo; non a caso il disco contese fino all’ultimo voto a “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei Baustelle il Premio che il MEI di Faenza assegnava annualmente al miglior esordio. Al tempo dell’uscita del CD intervistai i ragazzi di Sassuolo, chiedendogli fra le tante cose se fossero rimasti sorpresi dei consensi ottenuti; la risposta di Luca Giovanardi, che di quell’organico è oggi l’unico superstite assieme a Nicola Caleffi e all’allora produttore (che dal 2006 è tastierista) Andrea Rovacchi, fu un po’ “da sborone”, come da gergo delle loro parti. "Avevo qualche dubbio su come sarebbe andata con ‘I’m In Love…', ma dopo l’accoglienza ricevuta dal singolo mi sono detto ‘Li abbiamo fregati, questi neanche immaginano cosa li aspetta'". Ci sta, ma scommetterei qualsiasi cosa che neppure nelle più sfrenate fantasie del chitarrista ci fosse quanto sarebbe accaduto dopo, in termini di evoluzione stilistica (i Julie’s Haircut di oggi sono irriconoscibili: provare per credere) così come di carriera: ulteriori sei album, una dozzina di altre prove di breve durata, varie collaborazioni di prestigio e un’infinità di concerti anche fuori dai confini nazionali. L’ultimo dei suddetti album, che sfoggia un titolo un po’ inquietante come “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin” (per chi non masticasse l’inglese, qualcosa tipo “Invocazione e danza rituale del mio gemello-demone”) è in circolazione da venerdì scorso con il marchio della Rocket Recordings, longeva e apprezzata etichetta britannica attiva nel campo del rock svincolato dalla classica forma-canzone, ed è un cerchio che si chiude; aprendone un altro, sembra logico ritenere.

Come accennato, i Julie’s Haircut di oggi sono diversissimi da quelli “giovanili”. Ad analizzarne il percorso è evidente come la mutazione sia stata graduale, ma volendo tracciare un confine fra “prima” e “dopo” esso dovrebbe coincidere con il quarto album “After Dark, My Sweet”, l’ultimo uscito per la Homesleep – eccellente label bolognese dei giorni in cui il termine “indie” faceva pensare a musica buona più che, come accade oggi, a robaccia dozzinale se non immonda – e il primo a mettere in evidenza il desiderio di sperimentare sonorità più complesse e meno immediate, come implicitamente rivelato dalla presenza in qualità di ospite di Sonic Boom degli Spacemen 3. Il monumentale “Our Secret Ceremony” (A Silent Place, 2009) e “Ashram Equinox” (Woodworm, 2013) hanno poi perfezionato l’indirizzo creativo, imponendo i Julie’s Haircut come realtà del tutto aliena – magari non l’unica, ma di sicuro una delle più autorevoli – nell’ambito della scena tricolore. Insomma, una band che di italiano ha solo i natali, la cui giusta dimensione è palesemente quella internazionale. Trovarsi oggi legati a una struttura nel cui catalogo figurano dischi di gente come Goat, Oneida o Gnod, solo per fare qualche esempio, può certo essere di aiuto per sostenere la loro credibilità.

Nonostante i tre anni e quattro mesi trascorsi, “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin” non si discosta poi molto da “Ashram Equinox”, anche se l’insieme appare più istintivo e meno sofisticato. Indole psichedelica di sapore esoterico, echi cinematografici, decise suggestioni krautrock/shoegaze, e accenni “avant”/improvvisativi continuano a coniugarsi in brani ipnotici e dilatati, anche se solo uno – “Zukunft”, proprio in apertura di scaletta – presenta una lunghezza abnorme, arrivando agli undici minuti e mezzo contro la forbice dai quattro ai cinque e mezzo di tutti gli altri. La presenza del canto, sempre in inglese, è piuttosto limitata, e la voce preferisce i sussurri alle grida, ponendosi così in piena sintonia con il mood di un sound nebbioso, intriso di mistero, di quelli che inducono al trance e non a saltare per la stanza roteando la “air guitar”. Qualcuno potrebbe osservare, nemmeno del tutto a torto, che di band di questo genere ne esistono a iosa ad ogni latitudine, ma la sintesi offerta dai Julie’s Haircut è a ben vedere meno stereotipata e più convincente di parecchie altre. Nel caso di dubbi al proposito, ascoltare l’incalzante sabba flagellato dal sax di “Deluge” ed essi si dissolveranno, lasciando nell’aria uno strana, stordente fragranza di incenso e zolfo.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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