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Il Volo: il successo di un prodotto di consumo

È in circolazione da una settimana esatta il nuovo disco dei vincitori di Sanremo 2015. Più che della musica, una preziosa occasione per trattare altri aspetti collaterali dei quali di norma si parla molto meno.
A cura di Federico Guglielmi
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Fino a pochi anni fa, Il Volo mi avrebbe fatto pensare al supergruppo – comprendente, fra gli altri, Alberto Radius e Mario Lavezzi – che a metà Settanta realizzò due interessanti album progressive, o magari ai singoli più o meno di successo di Litfiba, Zucchero e Fasten Belt. È invece dal 2010 che il nome viene associato in automatico al trio composto da Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble, fino a qualche settimana fa in virtù della notorietà acquisita soprattutto all'estero e da una decina di giorni in seguito alla vittoria dell'ultimo Festival di Sanremo. Perfettamente normale, alla luce della notevole attenzione mediatica, destinata di sicuro a non scemare adesso che il disco pubblicato lo scorso 17 febbraio risulterà presumibilmente in vetta alla classifica di vendita italiana; classifica con numeri che in assoluto fanno ridere, ok, ma che comunque garantisce visibilità nel grande circo della musica di massa. Ottimo per i tre ancora giovanissimi cantanti e ancor di più, viene da pensare, per chi dietro le quinte ne muove i fili. Procediamo però con un minimo di ordine: si parlava del disco, no?

Il disco in questione non è un classico album, ma un “mini” con sette brani che non arriva a ventisette minuti di durata e che, nella sua versione fisica in CD, costa (di listino) 12 euro e 50. Marchiato dalla Sony, ha un titolo ammiccantissimo – “Sanremo grande amore” – e mette in fila, oltre al “Grande amore” che ha trionfato all'Ariston, sei interpretazioni di pezzi legati alla kermesse. Tre la vinsero rispettivamente nel 1968, nel 1959 e nel 1960, ovvero “Canzone per te” di Sergio Endrigo, “Piove” di Domenico Modugno e “Romantica” di Renato Rascel e Tony Dallara, mentre le altre tre – “Ancora”, incisa nel 1981 da Eduardo De Crescenzo; “Vacanze romane”, hit del 1983 dei Matia Bazar; “L'immensità” di Don Backy e Johnny Dorelli, del 1967 – non ottennero nemmeno un posto sui podi ma godettero di ampi consensi, assurgendo in ogni caso al rango di “classici”. Inutile, credo, che sottolinei come – a mio pur discutibilissimo parere, eh – nessuna delle cover regga il confronto con gli originali. La qualità delle voci dei ragazzi non si discute e tutto, dai loro intrecci agli arrangiamenti sdolcinati e spesso ipertrofici sui quali si appoggiano, è equilibrato e funzionale agli obiettivi, ma è fin troppo ovvio che l'arte vera stia di casa altrove. Qui regna l'esercizio di stile finalizzato all'affermazione in ambito nazionalpopolare; un prodotto industriale inserito in una precisa categoria merceologica, quella che nelle terre anglofone è denominata – sic! – “operatic pop”. Ormai Andrea Bocelli va per i cinquantasette, e la bella melodia italiana per il mondo necessitava di freschi testimonial. Testimonial che, guarda un po' il caso, hanno alle spalle Michele Torpedine, già eminenza (non grigia) dietro Zucchero, lo stesso Bocelli e il “Pavarotti & Friends”.

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Detto con la massima sincerità, solo a sentire il termine “operatic pop” avverto sensazioni affini a quelle provocate dalle più gravi forme di orticaria e dall'eventuale ascolto dei Modà, e Il Volo incide sulla mia vita tanto quanto i cambiamenti climatici nel Kizilkum. Da addetto ai lavori sono però sono costretto a pormi qualche domanda. Ad esempio, se davvero c'è un pubblico adolescenziale e post-adolescenziale che si riconosce in questo modello musicale in apparenza così antico e che, quindi, contribuisce con l'acquisto di CD, file e biglietti di concerti ad alimentare il meccanismo. Sarei poi curiosissimo di esaminare i contratti firmati da Piero, Ignazio e Gianluca, per capire se sono ripagati soprattutto con la gloria e il divertimento o se, al contrario, quanto percepiscono a livello economico sia adeguato al movimento di denaro che hanno attorno e che senza il loro talento non ci sarebbe. Non va dimenticato, infatti, che i tre pischelli, non essendo compositori di quello che eseguono in studio e sui palchi, non vedono un euro di SIAE, e che pertanto i loro guadagni sono nelle percentuali delle vendite dei dischi e nei compensi dei concerti. “Ma a te cosa importa?”, mi si potrebbe chiedere. Nulla, ovviamente, ma mi farebbe piacere apprendere che un progetto così sfacciatamente “costruito” fin dall'inizio – Il Volo nacque da un‘idea di Roberto Cenci, regista del talent “Ti lascio una canzone” al quale i Nostri si erano presentati come solisti, per poi essere gestito, prima di Torpedine, da Tony Renis – stia almeno rendendo il giusto a chi ci mette la faccia e non stia invece in massima parte impinguando i conti in banca dei soliti burattinai già milionari. Tu chiamalo, se vuoi, senso di equità.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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