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Geolier: “Dopo la mia morte voglio che la gente faccia rap ascoltando le mie canzoni”

Lo scorso 6 gennaio veniva pubblicato “Il coraggio dei bambini”, il secondo album del rapper napoletano Geolier. Qui l’intervista.
A cura di Vincenzo Nasto
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"Io rappresento, non è un'immagine che mi sono creato. Io sono così, non fingo di essere così. Non posso abbandonare queste persone, perché anche prima di loro e Napoli, tradirei me stesso". L'avevamo scritto nell'introduzione alla guida alle canzoni de "Il coraggio dei bambini". Geolier non ha abbandonato Napoli, e Napoli non si è dimenticata di dare tutto il suo amore al rapper: ma è successo qualcosa di più. L'album, completamente in dialetto, si è preso la testa del mondo nel weekend d'uscita: "Il coraggio dei bambini" si è messo alle spalle, nella Spotify Global Chart, artisti del calibro di French Montana e Iggy Pop. Ma i risultati non sono l'unico stimolo di Geolier, intenzionato a diventare una leggenda della città: "A me basterebbe che 10 anni dopo la mia morte, così come io ascoltavo i Co’Sang, chi inizia a fare rap ascolti me. Sarebbe bellissimo". L'intervista a Geolier qui.

Come nasce Il coraggio dei bambini?

"Il coraggio dei bambini" non nasce, doveva essere. Io ho scritto i pezzi, ho raccontato cose: all’interno, magicamente, trovavamo sempre i bambini. Io pensavo a scrivere, non cercavo di scrivere in funzione di un titolo, è qualcosa che è venuto dal mio subconscio: l’ho fatto, non l’ho pensato. Dopo aver ascoltato tutto l’album, ho capito che raccontava di un bambino che viveva cose buone e cose cattive. Sto leggendo un libro: “Padre ricco, padre povero” (Robert Kiyosaki e Sharon L. Lechter) e racconto quella situazione. Un bambino ha coraggio, perché ha paura di fare quella cosa ma la fa lo stesso e questo racchiude il significato di ciò che abbiamo fatto in questi anni. Lo abbiamo fatto e basta, anche se avevamo paura: ci siamo riusciti e dobbiamo continuare a farlo.

Come si è evoluta la tua scrittura?

Io scrivo sempre. Per esempio, stanotte alle 2 ho scritto una cosa, stavo vedendo un documentario e mi è venuta una frase tipo: "Il tempo non cura, ma allevia il dolore". Non ho un metodo, è tutto di pancia, poi ci lavoro con Dat Boi Dee, o con chiunque. A me basta che batti le mani a tempo e io ti scrivo un pezzo, perché mi piace.

Quanto è stato importante per te mantenere un’identità rap dell’album, quell'immagine, anche dopo il successo di Emanuele e le aspettative del pubblico?

Più che l'immagine, per me è importante rappresentare. Io rappresento, non è un’immagine che mi sono creato. Io sono così, anche senza telecamere, e non posso abbandonare quello che sono: tradirei oltre le persone che rappresento e quelle di Napoli, anche me stesso.

Com’è cambiata la tua vita?

È cambiato tutto, ma lo era già quattro anni fa (quando uscì Emanuele, ndr). Adesso sarà cambiato in meglio, ma per me è successo già tutto quattro anni fa. Anche nei pezzi te ne accorgi, c’è un lavoro diverso, perché voglio evolvermi sempre: la mia maturità, per esempio, la vedi anche nei pezzi e nel modo in cui parlo.

Cosa diresti all’Emanuele bambino e al bambino che vuole diventare come te?

All’Emanuele bambino direi di fare il bambino, anche perché Emanuele non lo è stato, come la maggior parte dei bambini a Napoli. Gli avrei detto: “Sì criatur, limitati a quello". A un bambino che vuole essere Geolier, gli direi: “Abbi coraggio, fregatene”. Io avevo paura di molte cose, di relazionarmi con le persone, per esempio, però col tempo ti abitui.

Un disco che parla di coraggio, ma evolve anche il concetto di paura. Di cosa ha paura Geolier in questo momento?

Di non essere capito. Ho paura che il mio disco non venga capito, non nei numeri o nei suoni, ma in ciò che dico. Vorrei che la gente capisca che io voglio rappresentare ciò che dico nei pezzi. Viviamo in un’epoca in cui la musica non è ascoltata, ma guardata, per questo la mia più grande paura è non essere capito.

Racconti con Lele Blade della "trappola", ma quasi in un'accezione positiva: una gabbia dorata in cui ti sei abituato a vivere.

Me la vivo benissimo, infatti nel disco dico: “In trappola me sento libbero sulo int'e gabbie”. Alla fine questa trappola che ci siamo creati è il nostro habitat naturale, stiamo bene in questa trappola. Abbiamo tutto sotto controllo.

Come vivi il rapporto con gli altri da quando sei diventato un'icona?

Dipende sempre da che persona sei, io per esempio me la vivo bene. Le persone si fermano, mi salutano: sono consapevole. Se io esco di casa so che devo relazionarmi, che devo fare una foto con un fan, perché è il minimo che io possa fare. Anche quando hai una giornata con mille pensieri in testa devi fartela sempre, perché magari è la sua prima e ultima volta che mi vede e poi andrà a casa e mi ascolterà solo. Avrà la possibilità di guardarmi solo dallo schermo di un telefono o di una tv, quindi do sempre il massimo. Poi è ovvio che incominci a chiederti perché le persone ti parlano, soprattutto quando vedi quelle che non ti hanno mai parlato, rivolgersi a te. In quelle situazioni magari mi dà più fastidio, ma non fa niente, come parlavo con le persone prima, lo faccio adesso.

Com’è cambiata la percezione del tuo successo per tuo i tuoi genitori?

Diciamo che non riescono più a fare alcune cose come prima nel rione, tra le palazzine. Si è creato un po’ il mito: i bambini indicano la casa in cui abito. Ma nella loro vita non è cambiato niente, infatti mi viene da pensare: “Non ho ancora fatto niente per loro”. Loro fanno sempre la stessa vita, mi educano ancora allo stesso modo.

Come ti poni nei confronti di una scena gangsta che conosci? Soprattutto in riferimento al brano “Ricchezza” in cui affermi di non esser voluto entrare in contatto con ambienti malavitosi.

Il mio essere “gangsta” è totalmente diverso da ciò che fanno gli altri: io li vedo teneri quando fanno i gangsta. Io li vivo realmente i gangsta, senza cadere in uno stereotipo che ormai non ha più senso perché alla fine a Napoli si sta bene. Per me un bambino del ghetto è già gangsta, per come si muove, per come ragiona: è già un adulto. Io racconto del gangsta, del figlio che va al colloquio dal padre che gli dice: “Tu devi studiare, non ti voglio vedere qui dentro”. Io sono quel tipo di gangsta lì: non vengo a dirti che stiamo vendendo i chili (di droga, ndr), perché stiamo facendo musica. Se io vendessi i chili non avrei rispettato quello che ho detto nei pezzi. La musica ci ha salvato, abbiamo solo questo. Se faccio qualche guaio, perdo ciò che ho costruito e perdono anche le persone intorno a me che si sono create un business solido.

Da che tipo di riflessione nella costruzione del disco sono arrivate le scelte per le collaborazioni?

Io tengo molto ai rapporti personali, sono amico a tutta la scena. Molte volte mi dicono: “Tu sei l’unico reale che ho visto nel game”. Credo che possano sbagliarsi un paio, ma non tutti. Se non ho un rapporto personale con l’artista con cui collaboro, non lo faccio il pezzo. Paky, per esempio, è un mio fratello, oltre ad avere un rapporto da colleghi, abbiamo un rapporto personale. La stessa cosa con Guè o con Lele: non avrei potuto mettere nessun altro nel brano “In trappola”, perché lui la vive con me. Stessa cosa con Sfera: io scelgo i feat così: mando il pezzo e gli chiedo se lo vogliamo fare, ma tutto nasce dal rapporto personale. Mi puoi dare tantissimo, ma se non siamo amici, non collaboro.

È vero che Mondadori ti ha chiesto di scrivere un libro?

Sì, lo dico in Maradona, ma non è il momento. Dovrei raccontare qualcosa, ma se faccio un libro adesso non avrebbe senso. Io voglio raccontare nel libro come diventare qualcuno, voglio arrivare a quell’attitudine per poter scrivere un libro. Ciò che posso raccontare adesso, lo faccio nei pezzi. Un libro è qualcosa di più complesso.

C’è qualcosa che pensi di non riuscire ancora a raccontare?

A volte mi limito da solo, perché mi chiedo: “Sono pronti per ascoltare questa roba?”. Ho fatto dei pezzi in cui ho parlato di politica e razzismo, ma come ti dicevo la mia paura è quella di non esser capito. Se io penso qualcosa so di poterla mettere in rima sempre, il problema è capire come spiegare alle persone ciò che dico piuttosto che riuscire a mettere su un foglio ciò che penso.

8 ottobre, Piazza Ciro Esposito a Scampia. Cosa ha rappresentato per te essere il padrone di casa di quel palco e fare quell'ingresso in moto?

(ride, ndr) Le moto le usiamo sempre, sentivo il bisogno di fare questa cosa. In Italia c’è questa corsa a farlo prima: vedo artisti che girano video sui cross ma non ci sanno neanche salire. Quell’arrivo in moto era un tentativo di identificare quella cosa, rendendola mia. Quella settimana ero super gasato, proprio per il posto in cui ci sarebbe stato l’evento. Io e Nicola (Siciliano) abbiamo registrato il video di “P’ Secondiglian” lì e dal palco io vedevo proprio quel punto. È stata un’emozione incredibile pensare al viaggio che ho fatto e il palco su cui mi stavo esibendo. Poi con un pubblico di bambini, per me è stato magico.

Quando ti sei avvicinato al rap?

Sembra che lo faccia da sempre, nonostante ciò che molti pensano il primo pezzo che ho scritto non è “P’ Secondiglian”. Si chiama “Secondino” e alcune volte lo ascolto su YouTube e dico: “Quanto ca**o ero forte”. Prima di fare “P’ Secondiglian” ho fatto roba cruda, ascoltando tutti i giorni i Co’Sang, mangiandomi le strofe, studiandole anche, dopo averle sottolineate.

Neanche musicalmente sei stato un bambino, basta osservare il freestyle di te 13enne sulla base di "Int'o rione" dei Co'Sang.

Io da bambino ascoltavo le persone, guardavo i loro movimenti, i loro gesti. Poi è arrivata la voglia di raccontare.

Come per Emanuele, anche per Il coraggio dei bambini hai dovuto affrontare il problema "leak" dei tuoi pezzi, da Telegram a TikTok. Come l'hai vissuta? 

A me fa male, sinceramente. È un dolore a cui non pensi, giustifichi quei leak dicendo: “Non sarebbe entrato nel disco” o “Erano solo provini”. Però fa male, perché quel pezzo fa parte di me: se non è uscito nel disco è perché non doveva uscire. Con il primo disco è successo, quando ho incominciato a lavorare al secondo ho cercato di fare di tutto per evitarlo, eppure si è ripetuto. Io faccio quattro pezzi al giorno durante la lavorazione del disco, il problema è che sono usciti dalla mia cerchia.

Perché pensi che succeda?

Perché per la gente, ascoltarmi prima, rappresenta uno status symbol.

Cosa significa essere leggenda per te? Ti aspetti di rappare ancora a 60 anni?

Ci stiamo avvicinando a rapper che hanno 50 anni, con artisti come Marra o Guè, che fa ancora uscire un disco all’anno. Se in vita non fai nulla per la tua gente, per cosa hai vissuto? Io voglio essere ricordato per ciò che ho rappresentato in vita: Geolier era napoletano, parlava di noi. Non mi interessa che resti la mia faccia, la mia figura: vorrei che venisse ricordato ciò che ho detto nei pezzi. Quello mi deve rendere leggenda, è quello che devo rappresentare. A me basterebbe che 10 anni dopo la mia morte, così come io ascoltavo i Co’Sang, chi inizia a fare rap ascolti me. Sarebbe bellissimo.

Intervista di Francesco Raiola, Vincenzo Nasto e Cristina Somma

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