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Francesca Michielin: “Sono un’artista, ma ogni cosa è sessualizzata se sei donna”

Il secondo posto al festival di Sanremo dove assieme a Fedez ha portato “Chiamami per nome” è solo uno dei tasselli di un puzzle molto grande che fa di Francesca Michielin una delle artiste più poliedriche del panorama musicale italiano. Cantautrice, polistrumentista, autrice a tutto tondo, la cantante ha pubblicato una nuova versione di FEAT che questa volta prende la specifica di “Fuori dagli spazi”.
A cura di Francesco Raiola
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Il secondo posto al Festival di Sanremo dove assieme a Fedez ha portato "Chiamami per nome" è solo uno dei tasselli di un puzzle molto grande che fa di Francesca Michielin una delle artiste più brave e poliedriche del panorama musicale italiano. Cantautrice, polistrumentista, autrice a tutto tondo (musica, certo, ma anche Cinema, podcast, poesie), Michielin ha pubblicato una nuova versione di "FEAT (Stato di natura)" che questa volta si declina in "Fuori dagli spazi", riprendendo e rinnovando quello che era il rapporto tra natura e urbano che sviluppava nel primo album. Un lavoro in cui la collaborazione (come dice il titolo) era al centro della sua poetica: l'idea di incontro come opportunità di crescita ed esplorazione, che in questo nuovo capitolo oltre a Fedez vede l'aiuto di Colapesce, Mecna e Vasco Brondi. Parlare con Francesca Michielin è darsi la possibilità di esplorare una serie di mondi, comprendere le dinamiche di crescita di una delle nostre migliori artiste e anche, in maniera più ampia, di una generazione che in parte da tempo ha capito che i confini sono concettualmente un limite, che fa del femminismo una battaglia civile di crescita, che si oppone all'idea che si debba restare chiusi in gabbie di genere, e che va, appunto, fuori dagli spazi. Il dualismo urban-natura è tale solo in parte, perché ascoltando le varie canzoni ("capitoli", come li chiama la cantautrice) che lo compongono si capisce che altro non sono se non il racconto delle enormi sfumature di cui si compone la contemporaneità.

Il la a questo nuovo progetto l’ha dato "Cattive stelle" che è un trait d’union perfetto con il primo FEAT; un brano in cui si uniscono un po’ i mondi semantici tuoi e di Vasco Brondi. Non è stato il primo singolo a caso, immagino…

Per me questo progetto è sempre stato concepito a capitoli. Il primo è stato Cheyenne, che è una canzone che parla molto anche del dissidio interiore, del dividersi tra una realtà di quartiere e quella urbana, di quando vai via dal tuo paesino per passare nella grande città. Quel pezzo per me fu l'inizio di "Feat (Stato di natura)", era una canzone minimale, leggera, al contempo molto densa e anche come vocalità rappresentava uno sviluppo dei pezzi precedenti, una specie di classico michieliniano ma in versione più urban. Poi è successo che ho continuato coi nuovi capitoli che però si sono scontrati con la pandemia finché il 13 marzo 2020 è uscito l'album. Credo che sia stato, inconsapevolmente, un progetto figlio del suo tempo perché tutte le canzoni richiamano, con determinate letture, cose vissute in questo contesto storico.

Fammi un esempio.

Pensa a "Monolocale", quando dico: "Le cose di una volta io me le ricordo ancora. Le cose di oggi io non ci voglio pensare più, spegni la TV, non pensarci più" che è esattamente la sensazione che ho provato durante il lockdown di marzo. Quando dovevo proseguire questi capitoli – prima che scoppiasse tutto avevo l'idea di un progetto che continuasse a raccontarsi, come se fosse una sorta di libro – ho pensato di prendermi del tempo, perché durante la pandemia non è detto che tutti riescano a scrivere, ma questo progetto è corale, fondato sull'incontro, lo scontro, la diversità. Incontrare le persone con cui volevo collaborare era estremamente complicato, sia da un punto di vista logistico che "sentimentale", quindi ho lasciato sedimentare delle consapevolezze, nate dalla solitudine.

E arriviamo a "Cattive stelle", giusto?

Quando abbiamo ripreso questa serie di capitoli ho deciso di iniziare con "Cattive stelle" proprio perché è stato il primo brano che ho scritto a giugno, quando siamo tornati a uscire e spostarci. Vasco Brondi è venuto a casa mia, c'era un temporale pazzesco, e ci siamo detti che era il giorno perfetto per scrivere un nuovo pezzo che però avesse la versione più evoluta di quel dualismo tra natura e urban di cui parlavamo prima. Si parla proprio di un'era che si spera che stia tramontando, ci sono riferimenti a elementi naturali ma anche cittadini, come se ci fosse per la prima volta, nel disco, un'armonia nuova, meno divisione tra le due visioni e più incontro. Secondo me non è stato un caso che sia stato anche il pezzo che si è sviluppato a tal punto da diventare il primo capitolo della nuova era di FEAT.

Tempo fa mi dicesti che quelle canzoni segnavano un passaggio dall’età adolescente a quella adulta. È passato qualche anno da quelle canzoni, in che modo oggi guardi, anche artisticamente a quel passaggio? E in che modo queste nuove si inseriscono nel dualismo natura e urbano?

C'è un concetto a me molto caro che è il principio dialettico di tesi, antitesi e sintesi per cui si sostiene che anche le parti con cui ci scontriamo di più e con cui siamo più in antagonismo sono fondamentali per fare un processo di sintesi efficace. Credo che i nuovi pezzi, per come li vivo io, è come se rappresentassero il risultato di un processo di maturazione che comprende non soltanto questa mia ultima fase di scrittura ma tutto il mio percorso. Per me questi brani sono delle evoluzioni: "Se fossi" è un'evoluzione di "Battito di ciglia", "Pole Position" è un'evoluzione del linguaggio di "Io non abito al mare", "Chiamami per nome" è l'evoluzione del linguaggio de "L'amore esiste". È una questione di sensazione, non c'è un concetto preciso, di struttura, io li vivo come se fossero una versione di me più consapevole, perché è vero che è un disco eterogeneo, per me rappresenta una sorta di antitesi con me stessa, esco fuori da me e mi specchio negli altri, però tutti i pezzi, anche i primi, sono una sintesi della me più piccola: "Monolocale" lo è dei cori gospel e del mio amore per i Red Hot Chili Peppers, sono proprio sonorità palpabili da quel punto di vista, come "Riserva naturale" ha questo mood Annie Lennox che è stata uno dei mei grandi ascolti. È come se la Francesca che ha ascoltato anche tante canzoni di un certo tipo e fatto canzoni di un certo tipo si ritrovasse e con i miei ospiti ho cercato di sublimare le esperienze che hai fatto.

I feat poi riprendono proprio questa tua varietà, oltre la gabbia di genere, insomma…

Il motivo per cui sono andata a Sanremo con Federico è perché lui è stato il mio compagno d'avventure proprio all'inizio della mia carriera. Andare con lui ha un valore importante sia dal punto di vista artistico che umano, perché come feat, io e lui abbiamo fatto cose molto apprezzate. Portare un pezzo così evoluto nelle strutture e nei temi rispetto ai nostri lavori precedenti era molto importante e non poteva essere nessuno se non lui la persona con cui fare questa esperienza.

Abbiamo capito che questo duetto piace, ma Federico è stato importante anche perché è lui che ha cantato il primo pezzo che hai scritto da autrice per terzi. Come sta proseguendo quel mondo da autrice?

Per me il concetto di autrice è un concetto molto più ampio di quello che solitamente si intende, non è tanto scrivere per altri, ma proprio scrivere per altro, perché quello di autrice è un concetto non solo legato alla musica. In questi anni ho avuto la possibilità di scrivere canzoni non solo destinate a me e l'ho fatto con molta naturalezza, anche perché ci sono colleghi che stimo, anche musicalmente molto distanti da me, che mi stimolano molto. È lo stesso concetto di FEAT, ovvero che nella diversità ti specchi tantissimo, l'altro è me allo specchio. Però per me è anche il concetto di scrivere per altro: ho scritto un sacco per il Cinema, ho fatto tante esperienze diverse, sono passata dallo scrivere adattamenti per la Disney a scrivere pezzi per produzioni importanti come per The Amazing Spiderman, poi ho fatto un corto cinematografico di cui ho scritto tutta la colonna sonora e mi sono messa in vesti più jazzistiche. Anche Maschiacci, il mio podcast, è un lavoro autorale molto complesso, quindi scrivo per altro nel senso che non scrivo solo in funzione dei miei dischi ma sto cercando pian piano di fare quello che volevo fare da piccola, ovvero scrivere e basta senza chiedermi quale sia la vera destinazione, non lo so, io scrivo: poesie, per il blog, scrivo Maschiacci etc e questa cosa mi sta aiutando, perché nella mia complessità sono molto a mio agio.

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Vero, a volte pensiamo all'autorato come una questione ridotta alla musica, invece…

Guarda, anche semplicemente produrre un tour – io lavoro con Giovanni Pallotti che è un bravissimo musicista e produttore – è qualcosa che ha a che fare con l'autorato. La gente pensa che io salgo sul palco e debba "solo" cantare e suonare, ma dietro c'è un lavoro di scrittura incredibile, perché i pezzi non sono come si sentono nel disco e anche quello è lavoro da autorato compositivo: riprodurre e riscrivere un tour, altrimenti andrei e canterei sulle basi del disco. Poi mi succede che per il Conservatorio debba scrivere anche delle tesi e adesso ne ho scritta una sul flamenco che è stata utilizzata al conservatorio Verdi di Milano e una tesi su "Cantanti e ciclo mestruale" che finirà in un libro di pedagogia di Pino Iodice, quindi ci sono anche queste cose divertenti per cui scrivi in ambito di ricerca e finisci in altro.

Senti, tu oggi per cosa hai lottato, per mutuare una delle domande che fai alle tue ospiti in Maschiacci?

Per affrontare un tema molto Maschiacci, appunto, oggi ho lottato per rimanere concentrata sulla musica contro il fatto che quando sei donna qualcosa cosa tu faccia venga sessualizzata. Faccio una foto in costume, un video in un certo modo? E magari le persone si fermano al pettegolezzo, chiedono perché ti vesti in un certo modo, "ce l'hai il fidanzato?". Però per le donne rivendicare la propria credibilità musicale è molto complesso, quindi quello che cerco di fare è lottare per rimanere sempre vicina alla musica.

Maura Latini, ultima ospite del tuo podcast, era un po’ pessimista sulla possibilità di alcuni cambiamenti, tu che spirito hai? 

Io sono molto ottimista perché vedo che stanno cambiando delle cose, nonostante ci sia sempre la polemica di turno, come quella sulla giustizia o meno se certi concetti femministi sia giusto che passino in maniera "pubblicitaria". Io credo che debba arrivare il concetto in tutti i modi possibili, perché è importante sensibilizzare su certi temi e ognuno lo fa a modo suo: c'è chi è più maldestro, chi è più preparato etc, ma sono ottimista perché anche i piccoli gesti sono importanti, anche salire sul palco dell'Ariston con le ascelle non depilate come ha fatto La rappresentante di lista è importante e noto una certa sensibilità in generale. Penso che bisogna rispettare il modo di esprimersi i tutti, anche io non sono sempre d'accordo con alcune colleghe e attiviste, però non mi voglio fermare a quello, voglio sempre vedere le buone intenzioni e l'educazione.

Sempre con Maura Latini affrontavi la questione "quote rosa", termine che non ami particolarmente, ma che dà l'idea di ciò di cui parliamo… Qual è la situazione nel mondo della musica?

Anche lì vedo tanti passi avanti, penso ai Grammy, per dire, poi considera che in Italia, rispetto a quando ho cominciato io, sono cambiate un po' di cose. Qualche anno fa dovevi fare un certo tipo di roba, vestita in quel determinato modo, con quelle tonalità lì, quel modo di cantare lì e io ricordo che con "Vulcano" mi opposi e dissi: "Io voglio fare un pezzo dance, cantato che sembro sdraiata sul letto". Ho cercato anche di fare rivoluzioni vocali che magari sembravano assurde, pensa al fatto che in alcune parti rappavo. Oggi c'è una mentalità diversa nel mondo della musica, nelle artiste, c'è sempre più spazio per tutte, sgomitando ma c'è, quindi la questione più che di quote rosa diventa di rappresentanza, l'obiettivo è sempre quello. Il termine "quota rosa" è sempre fraintendibile, ma se uno comincia a ragionare con la rappresentanza tutto ritorna. Ricordo quando io, Levante e Maria Antonietta facemmo "Si può dare di più" a Sanremo e il giorno dopo lessi critiche tipo sull'arrangiamento etc, ma c'è una questione più importante di rappresentanza; una bambina che vede il Festival di Sanremo deve poter dire: "Io da grande voglio essere su quel palco ed essere così", averne la possibilità è l'obiettivo.

Nell'ultima puntata del podcast parli di un insegnante di canto era contro di te, anche quando ottenevi i primi successi, si sarà ricreduto?

No, non si è mai ricreduto. Diciamo che è una persona a cui devo tanto perché è stata la prima nella mia cittadina a creare un coro gospel per ragazzini e ragazzine, tra i 6 e i 18 anni, prima c'erano solo i cori parrocchiali, quindi gli sono debitrice, è con lui che ho scoperto Lauryn Hill, Whitney Houston e tanti altri artisti e cori gospel. Gli devo tanto, poi ovviamente come sempre ci sono dei gusti e io non ero nei suoi canoni. Ti dico che anche il rapporto con la mia voce si sta evolvendo oggi, non ero una performer, quindi lui non ha mai creduto che io potessi continuare e tutt'oggi non si capacita che io stia comunque facendo questo mestiere, però lo rispetto, è una persona molto onesta.

Neanche tutta l'arte che c'è attorno a questo lavoro, che non è solo voce, ma studio, strumento, produzione, autoralità lo ha convinto, quindi?

No, perché soprattutto se arrivi da un ambiente accademico è complesso. La prossima ospite del mio podcast sarà Beatrice Venezi che arriva, come me, dal mondo classico. C'è tanta gente – non lei, ovviamente, ma persone tipo il mio insegnante – che arriva dal Conservatorio e fa fatica ad accettare che una persona giovane abbia successo senza studiare tanto quanto loro. A volte fa incazzare che io possa prendere 30 a un esame, poi essere sul palco di Sanremo, poi tornare in classe, poi fare bene una cosa, e lo capisco, perché c'è gente che studia una vita e magari non riesce ad avere i riconoscimenti che merita, tanto che quando vinsi X Factor mi sentii anche in colpa perché a 16 anni, obiettivamente, anche rispetto a tanti colleghi che erano in gara.

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