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Elisa torna all’inglese con ‘On’: la sua casa è il mondo

Dal palco di Sanremo, presentando fra le altre cose il nuovo singolo “No Hero”, Elisa ha annunciato l’album “On”. Da qui l’idea di qualche riflessione sul rapporto non sempre fluido dell’artista friulana con i testi in italiano.
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A cura di Federico Guglielmi
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Nell’era di Internet e dei social network, gli uffici stampa hanno perfezionato un’odiosa strategia promozionale con la quale una singola notizia – nella fattispecie, quella di un nuovo disco – viene frazionata in un numero spesso folle di micronotizie da centellinare, allo scopo di moltiplicare la presenza in Rete del prodotto in questione. Lo stillicidio non prevede uno schema fisso, ma più o meno va così: prima si dice che l’album uscirà, quindi se ne rivelano il titolo e (non necessariamente assieme) la data di pubblicazione, poi se ne propone un assaggio sotto forma di singolo (con video, di solito), in seguito viene “svelata” – nemmeno si trattasse dell’esistenza degli alieni – la scaletta e infine tocca alla copertina. Non lo scrivo per sottolineare quanto per un addetto ai lavori tutto ciò sia irritante, ma per spiegare il motivo per il quale non so ancora con certezza – o, meglio, non lo posso dire, perché creerei turbative nel meccanismo delle “rivelazioni” – se il nono vero e proprio album di studio di Elisa (o il settimo: dipende da come si considerano “Lotus” e “Ivy”), che giungerà nei negozi il 25 marzo, sarà tutto in inglese o no. È noto a chiunque che si intitolerà “On” e se ne conosce già il brano apripista “No Hero”, ma per il resto è ancora buio profondo. Piuttosto che cercare di scrutare nel futuro, volgerei allora lo sguardo al passato, quando Elisa Toffoli non gestiva la sua carriera destreggiandosi fra la lingua che fu di Shakespeare e quella che fu di Dante, ma non aveva dubbi che la sua espressione attraverso le parole dovesse essere soltanto in inglese. Erano i giorni del bell’esordio “Pipes & Flowers”, settembre 1997, e nel recensire per la prima volta la giovanissima artista di Monfalcone non ebbi problemi a sbilanciarmi. Scrissi di “uno stile di respiro internazionale, anche a causa dei bei testi in inglese per di più cantati alla grande”, di “doti vocali straordinarie e notevole maturità compositiva, unite agli input derivati dall’ascolto delle più grandi interpreti jazz e R&B e di varie cantautrici anni ‘90 (PJ Harvey, Björk e soprattutto Tori Amos)”, dolendomi appena un po’ che quegli episodi riflettessero “solo il volto più delicato ed onirico della sua personalità (con qualche accenno di grinta e qualche affondo di sapore dance) e non quello più crudo e ‘sovversivo’ – forse, ancor più interessante – che gli è presumibilmente speculare”. Esisteva, quell’altro volto, e nel prosieguo dell’attività avrebbe fatto occasionalmente capolino, ma chissà cosa sarebbe accaduto se Elisa fosse stata in grado di mostrarlo liberamente quando a spingerla aveva la grinta dei (nemmeno) vent’anni. Una curiosità che, nessun dubbio, è destinata a rimanere insoddisfatta.

La curiosità di incontrare Elisa me la tolsi, invece, nella tarda primavera del 2001, qualche mese prima dell’uscita del terzo album “Then Comes The Sun”. All’epoca era già una star e ricordo bene il suo arrivo all’appuntamento nel quartiere romano di Testaccio: non riuscivo a credere che la fresca vincitrice del Festival di Sanremo si fosse presentata sola, senza discografici, manager o addetti stampa. Perfettamente mimetizzata da studentessa liceale, grazie alla corporatura minuta e all’abbigliamento normalissimo, non fu riconosciuta da nessuno, e potemmo così chiacchierare tranquillamente per un bel po’, in un bar all’aperto. Rimasi impressionato, non posso negarlo, dalla convinzione della mia interlocutrice, un vero scricciolo da combattimento; fosse stata malleabile e influenzabile come tanti suoi colleghi, non avrebbe difeso a oltranza il diritto di cantare nella lingua che preferiva e di sviluppare la sua musica nelle forme per lei più idonee a rispettarne l’essenza. La sua grande determinazione mi fu confermata in una seconda conversazione di cinque mesi dopo, nella quale mi spiegò perché il nuovo disco non contenesse, com’era stato al contrario ipotizzato, pezzi in italiano. “Ho tentato, adattando brani come ‘Fever’, ‘Rainbow’ e ‘It Is What It Is’, e con Roberto Angelini ho realizzato una ‘Dancing’ che però non ci convinceva. La mia ‘sventura’ è nel dover tradurre i miei pezzi dall’inglese, mentre mi piacerebbe molto saper scrivere canzoni direttamente nella mia lingua. Insomma, ho lasciato perdere perché mi sembrava assurdo sforzarmi in quel modo con il rischio di ottenere qualcosa di poco spontaneo. Io non lavoro ‘imponendomi’ le cose, di solito tutto vien fuori da sè: l’applicazione serve magari per ‘vestire’ i pezzi nel modo più adatto, ma non in fase di scrittura. Prima c’è il dominio dell’istinto e dopo, magari, quello della ragione. Alla mia casa discografica non hanno fatto i salti di gioia, so bene che ci speravano, però hanno capito che era una questione di rispetto per la musica già esistente. Si sono comunque consolati pensando che il discorso è probabilmente solo rimandato. Sebbene i risultati ai quali ero giunta possano anche piacere, mancava la mia convinzione: e per me inserire in un disco una cosa nella quale non si crede davvero è orribile, è come buttare una possibilità” (l'intervista completa). Badate bene, a parlare era una ventitreenne che, dopo aver vinto il Festival di Sanremo e raccolto vari riconoscimenti con la sua prima canzone in italiano – “Luce (Tramonti a Nord Est)”, per gli smemorati -, non aveva voluto ritentare l’esperimento per questione di integrità e coerenza. Roba da matti, eh?

Mi viene da sorridere, riscontrando un po’ ovunque una buffa enfasi per il “ritorno all’inglese” di Elisa in “No Hero” e, si suppone ma non si può dire, “On”. D’accordo che il lavoro precedente, “L’anima vola” del 2013, era tutto in italiano (cosa mai successa prima), ma la conversione stabile alla lingua madre sarebbe stata una stravaganza; perché l’artista friulana è apprezzata da un ampio pubblico anglofono, ovvio, e soprattutto perché, nella sua ormai imponente discografia, l’inglese è la regola e non l’eccezione. Per lei, comporre in italiano non è sempre facile: ha bisogno di motivazioni forti. “Per farlo devono esserci ragioni molto speciali”, ebbe ancora a dirmi in quel lontanissimo 2001, e a giudicare dagli sviluppi della sua produzione mi sentirei di affermare che il problema – che, poi, “problema” non è – non è stato risolto. Nel repertorio di Elisa, i testi in italiano sono appena il 20% del totale e parecchi di essi sono firmati da altri o assieme ad altri, e qualcosa vorrà pur dire. A me questo piace, perché legittima che si parli di lei come di un’artista dalla dimensione davvero internazionale, che sa cantare – e con risultati brillanti – per il mondo e non solo per i nostri connazionali all’estero e per l’audience dell’America Latina. Non disprezzo il nostro meraviglioso idioma, sia chiaro, ma provo soddisfazione nel riscontrare che qualcuno riesca a farci sembrare meno provinciali agli occhi del resto del pianeta. E che per Elisa sia una scelta spontanea e non, come dire?, “politica” rende il tutto ancor più positivo e confortante.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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