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Yoko Ono, la donna più odiata della musica. Matteo B. Bianchi: “È ora di abbattere i pregiudizi”

In uno dei rari libri su Yoko Ono lo scrittore Matteo B. Bianchi ripercorre la vita e la carriera di una delle donne più influenti di questo secolo, analizzando i tantissimi pregiudizi che l’accompagnano da sempre. Pregiudizi, appunto, difficili da scardinare a causa della poca conoscenza della sua opera che qui viene analizzata in tutte le sue sfaccettature.
A cura di Francesco Raiola
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Yoko Ono (Getty Images)
Yoko Ono (Getty Images)

Ultimamente è capitato di leggere, riguardo i più o meno presunti litigi tra Fedez e J-Ax e Fabio Rovazzi, di "Effetto Yoko", ovvero quell'effetto che prevede un'influenza negativa di una donna nei confronti del proprio uomo. Il nome si ispira, ovviamente, da quello di "Yoko Ono", artista giapponese e ultima moglie di John Lennon dei Beatles, probabilmente una donne e artiste più note al mondo di cui si è parlato meno e per cui esiste un pregiudizio negativo più forte di qualsiasi reale giudizio. A tentare di spiegarci chi è realmente Yoko Ono, qual è la sua opera, qual è il suo reale ruolo all'interno della storia dei Beatles e soprattutto quali sono i luoghi comuni attorno alla donna, alimentati soprattutto dall'ignoranza rispetto alla sua figura pubblica e privata, ci prova Matteo B. Bianchi, scrittore e autore radio/tv che per Add Edizioni ha pubblicato un libro dal titolo "Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio".

Ciao Matteo, ho appena visto il trailer di Imagine, che sarà nei cinema a ottobre. Qual è l’ultimo tuo contatto visivo, uditivo, tattile con Yoko Ono e la sua arte?

Sto ascoltando i primi brani del nuovo album che uscirà a ottobre e di cui anticipa alcuni assaggi su Spotify. Sta tornando verso una formula musicale più rock e primitiva, mi pare. Un segnale della sua voglia continua di mutare.

Lo dici tu stesso: in Italia (e non solo) non c’è molta bibliografia su di lei, anzi direi che restando nei nostri confini praticamente sei l’avanguardia (soprattutto se si parla di una visione scevra da pregiudizi negativi). Come è stato accolto questo tuo libro?

No, no, io dico proprio che nel mondo c’è una scarsissima bibliografia su di lei. È probabilmente la donna giapponese più famosa del pianeta e in Giappone non le è mai stata dedicata una biografia, per fare un esempio clamoroso. L’accoglienza del mio libro in Italia è stata sorprendente: ne hanno parlato moltissimi giornali, sono stato intervistato da un’infinità di radio, ma è soprattutto l’accoglienza dei lettori a essere stata ottima. Quasi tutti mi hanno detto: ho capito che su di lei non sapevo praticamente nulla e tu hai fatto scoprire chi sia davvero. Il che, per me, è un complimento fantastico.

Un libro in controtendenza, appunto, nel senso che “riabilita” un’artista che molti giudicano senza conoscere. Qual è stata la critica più feroce che ti è stata fatta?

Sembrerà incredibile, ma nessuna. In verità si conosce così poco di lei che una trattazione approfondita come quella che ho scritto può scardinare dei pregiudizi più che alimentare critiche. Però allo stesso tempo alcuni, rarissimi, fan di Yoko italiani mi hanno fatto le pulci su alcune imprecisioni che compaiono nel testo (tipo che ho citato una data sbagliata di un giorno o un nome scritto con una grafia scorretta) che mi hanno fatto persino piacere. Esistono fan di Yoko più accaniti di me!

In effetti l’immagine di Yoko Ono è forse una di quelle maggiormente giudicate da gente con meno conoscenza del soggetto (restando in materia artistica): come ti sei preparato per scrivere questa dichiarazione d’amore?

Da fan seguo l’attività artistica di Yoko da molti anni, quindi avevo già raccolto molto del materiale disponibile su di lei (come cataloghi di mostre, volumi fotografici, saggi su Lennon e così via). Per scrivere il libro ho ampliato questo bagaglio, leggendo tutte le interviste che ho trovato on line, guardando diversi documentari su Lennon e i singoli Beatles e andando a ricercare anche alcune rarità, tipo il volume che raccoglie l’ultima intervista integrale che lei e Lennon avevano concesso a Playboy pochi giorni prima che John morisse. Un tascabile americano degli anni ’70 che sono riuscito a recuperare solo tramite una transazione su Ebay.

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Ammetto la mia ignoranza, non ero ferratissimo sulla sua discografia, però ascoltando Kiss Kiss Kiss mi sono venuti in mente gli Enon, per dire.  Qual è, secondo te, l’aspetto più importante della sua musica e quale quella più sottovalutata?

Di sicuro gli album degli anni ’70 e primi ’80 hanno sofferto il trattamento peggiore, proprio perché i media la detestavano e non vedevano l’ora di distruggere quello che lei proponeva. A parte rari casi, anche la critica musicale più seria dedicava ai suoi album giudizi sbrigativi e superficiali. Invece ascoltando oggi un album come “Approximately infinite universe” non si può fare a meno di riconoscere la varietà e la qualità del materiale presente. Poteva piacere o non piacere, ma certo non si capisce come potessero trattarlo al livello di produzione scadente e del tutto trascurabile. Voglio dire, ci suonavano anche Lennon e Mick Jagger, fosse anche solo per questo un minimo di considerazione (o di semplice curiosità) in più avrebbe dovuto suscitarla. Il pregiudizio su Yoko però era così radicato allora che travalicava su tutto. Per fortuna negli ultimi anni l’atteggiamento nei suoi confronti da parte della critica musicale è mutato in maniera radicale e oggi le si riconosco quei meriti che per decenni le sono stati negati.

E qual è il suo profilo musicale che preferisci: quello dei primi anni, quello più pop, quello dance…?

Io ho un’anima profondamente pop e le cose di Ono che preferisco sono le contaminazioni fra la sua musica e gli artisti pop e dance attuali, come i remix dei Pet Shop Boys e Moby, i duetti con Peaches, i brani riarrangiati dai Death Cab for Cuties o Penguin Prison, cose così. Però ho sempre considerato la produzione di Yoko Ono come qualcosa di assolutamente unico nel panorama musicale, quindi nei suoi dischi trovo ogni volta qualcosa che mi piace, anche quando è molto lontano dal mio gusto. L’unico aspetto che per me resta ostico sono i primi dischi sperimentali in coppia con Lennon alla fine degli anni ’60: quelli anche per me sono troppo.

Quale influenza il lavoro e/o la vita di Yoko Ono ha avuto – se ne ha avuta – su quello che fai?

Se c’è una lezione che la vicenda di Yoko Ono insegna è quella di trovare il coraggio di avere sempre fiducia in sé stessi e ignorare l’odio e la negatività che possono provenire dall’esterno. Lei in questo è stata una sorta di super-eroe, o una martire a seconda di come la si voglia guardare. Mi sembra una lezione importante soprattutto per i tempi che viviamo, nei quali chiunque di noi rischia di essere vittima di odio e bullismo sui social, basta un’opinione non condivisa per essere riempito di insulti e commenti atroci. La vita di Yoko ci insegna a non perdere di vista quelli che sono i nostri valori e i nostri obiettivi e lasciare che il resto rimanga ai margini, che subisca il declino del tempo. È un insegnamento che io stesso dovrei sforzarmi di ricordare più spesso, anche se so bene di non possedere affatto la sua stessa, invidiabile forza d’animo.

Nel libro si legge anche che un po’ di odio si deve anche a un problema razziale, a cui si aggiunge l’accusa massima: essere stata la causa dello scioglimento dei Beatles. Un’accusa che è dura da combattere. Qual è stato, secondo te, il pregiudizio maggiore che ha dovuto affrontare?

Yoko Ono era una donna orientale, era esteticamente lontana dal modello di bellezza dell’epoca (molti la consideravano un mostro), era una femminista, era un’artista concettuale, era una che aveva molte cose da dire e che non si sognava di impersonare il ruolo della first lady sorridente e silenziosa accanto al marito superstar. Tutti elementi che l’hanno resa fin da subito intollerabile al pubblico. Inoltre Lennon aveva lasciato moglie e figlio per lei, una scelta moralmente ancora molto condannabile negli anni ’60. Lo scioglimento dei Beatles è avvenuto tre anni dopo, ma per il pubblico (e i media) è stato così facile attribuire una relazione di causa-effetto ai due eventi che lei ha dovuto pagarne le conseguenze per decenni. Assurdo. Oltre che crudelissimo.

Senti, oggi sappiamo che Imagine esiste grazie a lei. In quanti ne sono consapevoli, secondo te?

Quasi nessuno, anche se forse con l’uscita del film e del libro dedicati a Imagine verrà esplicitato il suo contributo fondamentale al brano. L’associazione dei discografici americani nel 2017 ha riconosciuto Yoko co-autrice ufficiale della canzone, ma è una notizia alla quale finora si è dato poco risalto.

In Italia c’è più odio o indifferenza, secondo te? Sia a livello di critica che di pubblico.

L’odio nei confronti di Yoko è generazionale. Chi ha vissuto il periodo Beatles (quindi parliamo di sessanta/settantenni) la detesta ancora oggi per le ragioni che ho elencato sopra. Le nuove generazioni non hanno una reale opinione nei suoi confronti, per la maggior parte la conoscono come la vedova Lennon, ma non hanno motivi di odiarla. Diverso il discorso critico: se negli Stati Uniti siamo in piena rivalutazione artistica, nel resto del mondo il fenomeno è ancora tiepido, ma stiamo andando verso quella direzione. Anche l’attenzione che ha avuto il mio libro su stampa e radio lo dimostra.

Racconti a chi non ha letto il libro qual è stata la scintilla di questo amore?

La prima canzone che ho ascoltato di Yoko, ossia “Kiss kiss kiss” sul lato B del 45 “(Just like) Starting over” di John Lennon, mi aveva prima conquistato e poi sconvolto, perché si chiudeva con la registrazione di un suo orgasmo. Ero un adolescente e l’avevo trovata una follia. Ma in un modo o nell’altro aveva acceso una scintilla di curiosità nei suoi confronti che ha richiesto anni per trasformarsi in amore vero e proprio.

Se dovessi consegnare una delle istruzioni di Grapefruit a chi leggerà questa intervista quale sarebbe? O, se vuoi, qual è quella che ami di più?

La mia preferita in assoluto è quella “del cittadino”, che dice: “Camminate per l’intera città con un passeggino vuoto”. La trovo tanto assurda quanto evocativa. E poi è davvero un atto di arte performativa alla portata di chiunque. Chiunque sia tanto folle e libero da volerlo fare, ovvio.

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