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X Factor arriva alla finale: possiamo smetterla di guardare al talent come al diavolo

X Factor è arrivata alla finale e lo ha fatto con il solito carico di polemiche, lacrime, commenti social, gente incazzata, gente innamorata che sono ingredienti essenziali del gioco. Ma oggi ha ancora senso guardare ai talent come si guardavano tanti anni fa, quando la discografia era completamente diversa? La risposta, secondo noi, è no.
A cura di Francesco Raiola
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X Factor è arrivata alla finale e lo ha fatto con il solito carico di polemiche, lacrime, commenti social, gente incazzata, gente innamorata, gente che non capisce come è possibile che tizia sia passata, gente che non capisce come caio non sia passato, insomma, le solite cose che fanno del talent di Sky un vero e proprio show. Guardare al talent come lo si guardava dieci anni fa, però, fa sempre un po' ridere, la lente dell'intransigenza dei duri e puri è tenera se completamente decontestualizzata. Sono anni ormai che stiamo qui a distruggerci su come sia possibile che il talent sia quello che una volta era la gavetta, sul bisogno di suonare nei locali, sul bisogno di suonare, suonare e suonare ancora prima di trovare la propria strada. Tutto questo è ovviamente vero, ma lo era ancora di più qualche anno fa, quando l'industria era in ginocchio, l'indie era veramente indie, le case discografiche cercavano la gallina dalle uova d'oro e chi partecipava ai talent non aveva fatto gavetta.

Negli ultimi anni, lo sappiamo e lo diciamo da tempo, tutto è cambiato. Anche in un anno nero come questo, il mercato discografico ha retto (occhio, per i musicisti e i lavoratori dello spettacolo è stato un disastro di proporzioni inimmaginabili, qui parliamo di una cosa che va al di là del live) anche e soprattutto grazie allo streaming che, bene sottolineare anche questo, non è la panacea per tutti i mali, ma semplicemente un mezzo da utilizzare al meglio, come i social. Se anni fa il talent era veramente un'occasione importante per capire in che modo funziona questo mondo e infatti spesso e volentieri a partecipare erano veramente sconosciuti o artisti alle prime armi, oggi il talent è un'opportunità come tante, che non dà alcun tipo di certezza sul futuro. Non a chi arriva dietro, ma talvolta neanche al vincitore.

Nel 2020 possiamo anche spogliare questi programmi da un peso ideologico che sembra superato dalla storia. Il talent è un mezzo importante per arrivare a una major, ma soprattutto è – questo sì – un modo importante di fare relazioni, di incontrare gente, di comprendere alcuni meccanismi, ma da lì alla popolarità il passaggio non è automatico. Quanti sono, sulla totalità di finalisti di questi ultimi anni, coloro che ancora oggi possono considerarsi famosi? Coloro che vendono realmente (o fanno ascolti) o riempiono locali (neanche palazzetti)? Esatto, praticamente una percentuale bassissima. Perché il talent è spettacolo, è tv, è uno show fatto benissimo in cui la musica è un ingrediente essenziale, un luogo in cui poter ascoltare anche un po' di musica che non sempre passa in tv, ma non l'ingrediente che da solo regge tutto.

Esemplari sono state le polemiche che hanno accompagnato la presenza di Alberto Ferrari dei Verdena durante la semifinale. Alcuni – non tanti, per fortuna – si sono lamentati della perdita di purezza di Ferrari, che nella vita fa il cantante e che ha segnato pagine importanti della storia musicale italiana contemporanea. Eppure c'è chi si è lamentato che uno di coloro visti come uno degli ultimi baluardi dell'indie italiano si è "sporcato" sul palco di lustrini, portando una delle sue canzoni a un pubblico diverso, ma che negli ultimi anni vede sempre più abbattersi l'idea di barriera come lo immaginavamo fino a qualche anno fa. Confini che in qualche modo si sono ammorbiditi, che hanno portato, ancora di più, pezzi estranei in uno show pensato per il grande pubblico. Gli spazi si sono moltiplicati, così come le etichette, la possibilità di distribuzione, le idee si sono atomizzate e possiamo arrivare anche a perdonare al talent di essere talent.

Tanto, che non sia quello il vero e unico e solo luogo del talento lo abbiamo scoperto anni fa – insomma, c'è chi lo ha creduto davvero? -, che sia una possibilità, anche, oggi sappiamo che quel palco può essere aperto a tutti senza che la cosa svilisca la personalità di qualcuno. Il signor "Venduto" avremmo anche potuto abolirlo a metà dei '90, quando i nostri miti underground firmavano con le major (e sintomatico è quello che Giovanni Lindo Ferretti ha detto nell'ultimo episodio di "33 giri – Italian Master" proprio a proposito del rapporto con le etichette). Ora godetevi questa finale. Oppure cambiate canale: un film, una serie, una partita la si trova sempre.

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