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Willie Peyote, diversamente rapper: “Non sono parte di niente e allora faccio tutto”

A un anno dall’uscita del suo ultimo album “La Sindrome di Tôret”, l’artista torinese continua a registrare tutto esaurito, portando la sua musica in giro per l’Italia. Lo abbiamo intervistato alla fine della sua tappa napoletana, provando a capire perché un rapper che spazia tra i generi e viene accompagnato da una band rappresenti, nel 2018, una sorprendente anomalia nel panorama musicale italiano.
A cura di Andrea Parrella
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A un certo punto del concerto di Willie Peyote a Napoli, la sala piena per la tappa partenopea de L'Ostensione della Sindrome Tour sente risuonare un riff troppo familiare per non insospettirsi. Neanche il tempo di risalire a "A me me piace ‘o blues" di Pino Daniele, come fossimo tutti in gara per un 7×30 del (non) compianto Sarabanda, che parte "C'hai ragione tu". A dispetto dello scetticismo legittimo, il mash-up viene fuori benissimo, e la prima cosa che chiedo a Willie Peyote subito dopo il concerto è della scelta di questo accostamento, la cui natura di omaggio a Napoli può essere facilmente scambiata per atto sacrilego. La risposta, però, mi sorprende:

In realtà è una roba che facciamo in tutte le date, stavolta l'abbiamo allungata perché siamo qua. Casualmente gli accordi delle due canzoni sono gli stessi. Ci tenevo a farla perché ho ascoltato molto Pino Daniele nella mia formazione e mi piaceva l'idea di tributarlo. Ma non è la sola citazione che facciamo. È stato un bel concerto, ho visto molta gente cantare tanto, segno che conoscevano i pezzi.

Ho fatto un sondaggio su di te negli ultimi giorni, la risposta più comune è che ti distingui perché "non fai un rap normale". Mi spieghi come mai vieni percepito come un oggetto non identificato?

Probabilmente per mancanza di cultura musicale, nel senso che non c'è cultura di alcuni generi. Si pensa che il rap sia solo quello che in quel momento storico va di moda. Negli anni Novanta il rap era solo quello, mentre oggi c'è la trap e chi fa l'old school. Ma il rap è, di per sé, solo un modo di comunicare e l'hip hop si è mischiato con tutti i generi sin da subito. In generale quello che risulta strano è vedere un rapper con la band, ascoltare un rapper che ha dei riferimenti musicali. Questa cosa la noto anche quando citiamo Pino ad esempio. Partiamo con quel riff con cui attacca "A me me piace ‘o blues", ma molto spesso le persone si esaltano quando sentono l'attacco del mio pezzo, il che vuol dire che sono in pochi a riconoscere da subito quello che è un riff fondamentale per la musica italiana. A parte a Napoli, naturalmente.

Quando sento la tua voce ho un'impressione simile a quella che mi dà Samuel dei Subsonica: mi pare di ascoltare qualcuno che canta in inglese.

Nessuno me lo aveva mai detto. Mi fa piacere che tu mi dica questa cosa di Samuel, artista che stimo profondamente, sia perché sono torinese e anche perché ho avuto la fortuna di lavorare con lui e i Subsonica. Lui ha una cifra stilistica tutta sua, probabilmente questa sensazione è dovuta al modo in cui mettiamo giù le parole sulla musica.

Però questa cosa dell'inglese mi porta a chiederti della possibile ricaduta del tuo prodotto sul mercato estero. Nei tuoi pezzi il messaggio contenuto nei testi è fondamentale, come ti rapporti all'idea che possa ascoltarti qualcuno che non capisce subito il senso di quello che canti?

Quando compongo penso a scrivere un bel pezzo a prescindere da ciò che dico. I pezzi partono sempre dalla musica, che poi riempio con le parole alle quali provo a dare un senso facendo un viaggio tutto mio. La musica deve essere bella da ascoltare. Forse un'altra anomalia è questa, che sono molto più concentrato sulle melodie e questo di certo non è un discorso tipicamente rap.

Da diretto interessato, non faccio fatica a dirti che trovo il tuo ultimo album una perfetta radiografia dei 30 anni, di questa generazione fondamentalmente irrisolta. Concordi?

Non so se racconti davvero così bene questa cosa. Io appartengo certamente a quella generazione lì, "La Sindrome di Tôret" è un disco in cui non cerco di parlare solo di me – a differenza del precedente "Educazione Sabauda" – e, se così fosse, sarei molto contento. Sento di far parte di un momento storico in cui non abbiamo avuto le chance dei nostri genitori, che ce l'hanno fatto anche un po' pesare, perché per loro era normale averle, e nel frattempo si è creata una generazione che, grazie soprattutto alla tecnologia, è molto più sveglia per certi aspetti.

Parafrasando parzialmente un concetto gattopardesco, troppo giovani per far parte del passato, troppo vecchi per potere far parte del futuro.

Noi siamo rimasti in mezzo. Vale lo stesso per il mio rapporto con l'hip-hop, nel senso che non appartengo agli anni Novanta e non sono della nuova scuola trap. Io sono a cavallo in molte cose che faccio e allora ho deciso di cavalcarlo ‘sto cazzo di cavallo. Non sono parte di niente e allora faccio tutto, è per quello che metto tutto dentro, perché alla fine è musica e quindi posso farlo. Non è così facile applicarlo alla vita di tutti i giorni.

Hai mai contemplato un'alternativa alla musica nella tua vita?

Sinceramente io non so cosa farei se non facessi questo, non ho neanche mai provato a fare altro e quindi non riesco a identificarmi in un trentenne che non trova lavoro. Fino a 30 anni ho lavorato in un call center come appoggio, ma non ho mai fatto altri colloqui perché ho sempre voluto fare musica nella vita. Di impegnarmi in qualcos'altro non avevo proprio voglia. Detto questo sì, percepisco di essere un po' in mezzo a due generazioni, il gusto dell'analogico in me c'è ancora.

Il significato delle cose che scrivi è diretto, pieno, ma spesso sento nei tuoi lavori qualcosa di sfuggente perché non riesco a capire se stai parlando di te, o stai raccontando la storia degli altri.

Quando parlo in prima persona, parlo sempre di me. L'unico pezzo scritto in prima persona per gioco è "La dittatura dei non fumatori". Per il resto se dico "io" parlo di me, altrimenti parlo di altri. Ovvio che la cosa non sia così netta. Ad esempio ne "L'effetto sbagliato" io parlo di me rivolto a una persona che mi mancava in quel momento, dicevo che senza di lei quella città in cui mi trovavo – Bologna – fosse più brutta. Poi però ho voluto riempire il testo con un concetto, aggiungendo il fatto che una città senza cultura e senza divertimento è una città più brutta. Il senso è questo: prima fai una bella canzone.

Scrivi in modo elegante e lessicalmente elaborato, ma non disdegni il linguaggio diretto, sopra le righe e senza fronzoli. "La Sindrome di Tôret" vuole essere una specie di inno ad esprimere, anche con durezza, ciò che si pensa. Le cose che scrivi hanno mai rotto le palle a qualcuno?

Purtroppo no.

E ti dispiace?

Da un lato mi fa piacere, nel senso che non vorrei girare con la scorta (sorride, ndr), però un po' mi spiace perché significa anche che non sono stato così pungente. Dopodiché non lo faccio per quello, non è un riconoscimento, non voglio che Salvini metta la mia foto dicendo "lui non ci sarà" ai suoi eventi in piazza, non voglio vendere più dischi perché dico la mia. Però sì, se si incazzasse mi farebbe piacere. Quando si è incazzato Belpietro io l'ho presa come una medaglia.

(Piccola parentesi: l'anno scorso, dopo essersi esibito a Che Tempo Che Fa con "Non sono razzista ma", Peyote finì per essere protagonista di un articolo di Maurizio Belpietro sulle colonne de La Verità, accusato di aver accusato tutti gli italiani d'essere xenofobi)

Non è solo per gli inserti di stand-up comedy (Montanini, Balasso), la satira è una delle tue armi principali quando scrivi. Paradossalmente l'attuale situazione politica è per te più deprimente, o rappresenta invece uno stimolo per l'ispirazione?

Beh è deprimente, è deprimente tutto, il linguaggio politico in generale. Lo è Salvini e chi sfrutta Salvini per fare le cose, è deprimente che non ci sia opposizione. L'attuale situazione è triste. Poi io ce l'ho con tutti, ma paradossalmente ce l'ho più con la sinistra che non ha saputo evitare tutto questo. Ogni tanto mi accusano di essere grillino, ogni tanto del Pd, a seconda di quello che dica. A me non me ne frega nulla di schierarmi.

Eppure hai apertamente ammesso che "Portapalazzo", una delle canzoni del tuo ultimo album, è riferita in modo esplicito al Movimento 5 Stelle. E non è che ne parli proprio benissimo, anzi.

Sì, è chiaro che non sono un grillino e "Portapalazzo" parla della sindaca Appendino che ha un anno in più di me, di Di Maio che ha un anno in meno di me. Il mio vecchio compagno "coi pezzi di motorino rubati" nella mia testa era Di Maio. In quella canzone parlo di questi giovani che devono farmi pesare la loro gioventù ed hanno tre anni più di me e adesso fanno i viaggi in Guatemala facendo i leader di opinione senza aver nulla da dire. Vorrei ci fosse qualcuno a far politica che non è come me, perché sennò tanto vale che la faccia io. Io ho studiato scienze politiche convinto che chi faccia quel mestiere debba essere più capace di me a farlo, non che se lui viene a fare il musicista lo fa bene come me.

So che detesti le etichette, quindi per chiudere in modo cordiale questa intervista vorrei chiederti di darmi alcuni aggettivi per definirti.

Autodefinirsi è sempre una cosa orrenda. Ti direi "eclettico", aggettivo che non userei per molti altri. Spero venga percepita la voglia di cambiare, non so se sia eclettismo o semplicemente il tentativo di essere originali. Non so quanto sia usuale l'idea di mettere la stand up comedy nel rap e di scrivere con uno stile da stand up comedy. Non vorrei definirla avanguardia. Ironico, ecco, mi piacerebbe si percepisse la satira di fondo.

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