Sono passati tredici mesi meno tre giorni da quando “La Torre di Babele” si occupò dei Gang, una settimana dopo il varo di una campagna di crowdfunding rivelatasi trionfale. L’operazione ha fruttato non solo il sospirato, bellissimo nuovo album “Sangue e cenere”, edito sul finire dello scorso inverno, ma anche l’ennesima conferma di quanto la band dei fratelli Severini continui a essere una presenza con cui il rock nazionale deve sempre fare i conti: in termini di puro e semplice spessore artistico, di amore dei fan, di quantità di uscite dal vivo, di interesse suscitato. Tra i frutti della resurrezione mediatica del gruppo marchigiano ce n’è uno inatteso: la decisione della Warner di ristampare tre album fondamentali dei Gang e di tutta la musica italiana, addirittura coinvolgendo Marino e Sandro. Album che erano fuori catalogo dai primi anni Zero per una triste questione di ripicche personali, legata a una concezione arrogante e prevaricatrice della discografia che oggi, per fortuna, non esiste quasi più.
Torniamo con la mente al 1988 quando i Gang, dopo un mini-LP e un LP autoprodotti che li avevano lanciati nel gotha del rock tricolore, firmano un accordo con la CGD. Realizzano un terzo lavoro ancora cantato in inglese per poi orientarsi sui testi in italiano, decisamente più funzionali al loro messaggio poetico, politico e culturale. La sterzata è anche musicale, con il distacco dal r’n’r clashiano/filoamericano e l’approdo a un folk-rock sospeso fra la tradizione e la canzone d’autore; tutto si sviluppa in una trilogia i cui capitoli vedono la luce con cadenza biennale dal 1991 al 1995, accolta con ovazioni critiche e positiva risposta di pubblico. È qui che la faccenda si complica: la dirigenza della Warner, ls multinazionale che intanto ha acquisito la CGD, ha una visione molto pratica, che mal si concilia con quella romantico-barricadera della band. “Cambiò tutto”, mi ha raccontato mesi fa Marino Severini, “perché una major ha criteri di produzione totalmente diversi da un'azienda: l'obiettivo era vendere tanto e subito e le loro direttive andavano applicate a ogni costo. La nostra personalità, l‘unicità e l'identità artistica si dovevano piegare alla ricerca del profitto. Se fossimo rimasti saremmo diventati l'ennesimo fenomeno da baraccone”. La crisi arriva dopo un album rock magari un po’ inferiore alle aspettative, “Fuori dal controllo” del 1997; l’etichetta vorrebbe un “best of” arricchito di qualche inedito ad hoc, magari uno in duetto con l’affermatissimo Ligabue (che con i Gang condivide il management), i Severini non vogliono saperne e vanno avanti per la loro strada, approntando un nuovo disco, il notevole “Controverso”, che esce con ritardo nel 2000. La Warner, in pratica, non lo promuove, e dall’inevitabile bagarre legale scaturisce la risoluzione del contratto. Il gruppo si trova libero, ma il suo catalogo rimane naturalmente nelle mani della Warner, che per dispetto lo lascia, di fatto, morire. Anzi, quasi peggio, perché anni dopo un CD verrà in verità immesso sul mercato: “Le più belle canzoni dei Gang”, una di quelle orride antologie economiche compilate senza criterio e confezionate senza alcun rispetto per i contenuti; vista l’estrema cura che i “ragazzi” hanno sempre avuto per ogni dettaglio, verrebbe da pensare che sia stata concepita per irritare i Nostri, più che per raggranellare due spiccioli.
Si dice che il tempo è galantuomo, e nella circostanza il motto popolare ha ribadito la sua fondatezza. La fuoriuscita dalla Warner del presidente Massimo Giuliano, avvenuta nel 2013, e l’insediamento di nuovi responsabili, ha portato a un recupero dei rapporti; ne è derivato un bel cofanetto di tre CD, in vendita dal 17 luglio, con l’imperdibile trilogia comprendente “Le radici e le ali”, “Storie d’Italia” e “Una volta per sempre” in versione rimasterizzata. Invitante il prezzo (19 euro) e suggestivo il titolo “L’età del pane”, ma i retroscena appena evidenziati fanno apprezzare forse più la sottile ironia del sottotitolo, “Dall’esilio al ritorno”. In totale, trentacinque brani ispiratissimi, che nonostante la non perfetta messa a fuoco del primo atto e l’imponenza concettuale che appesantisce un po’ il terzo (sul secondo, invece, nulla da dire: capolavoro assoluto), costituiscono magnifica testimonianza di come la cultura possa tradursi in canzoni e le canzoni possano veicolare cultura, senza per questo trascurare sentimenti ed emozioni. Anzi, esaltandoli.