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Vasco Brondi contro Spotify: “Ci pagano una miseria e vogliono che facciamo un disco ogni 4 mesi”

Nei 26mila giorni che in media viviamo, Vasco Brondi ha scelto di prendersene un po’ per fare musica, scrivere canzoni che sono poesie, che parlano di cose universali partendo da particolari. Il primo album dopo l’esperienza de Le luci della centrale elettrica è “Paesaggio dopo la tempesta”, un ritorno che aspettavamo e non ha deluso.
A cura di Francesco Raiola
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Nei 26mila giorni che in media viviamo, Vasco Brondi ha scelto di prendersene un po' per fare musica, scrivere canzoni che sono poesie, che parlano di cose universali partendo da particolari, parlando di migrazioni ma senza restare ancorato al momento, perché la canzone, ci spiega, deve essere qualcosa di eterno. Fuori dal mercato discografico, da sempre fieramente indipendente, anche perché non malleabile nelle sue volontà (tipo quella di far uscire un pezzo come "Chitarra nera" come primo singolo dell'album), Brondi ha scelto – per tornare senza Le luci della centrale elettrica – di raccontare il "Paesaggio dopo la battaglia", titolo del suo nuovo lavoro e resoconto di questi giorni tribolati, ma anche pieni d'amore, di macerie su cui ricostruire un futuro. È un album spaziale, nel senso che è pieno di spazi, che riprende un po' quelle che sono alcune delle caratteristiche del cantante, una serie di temi, di suoni, l'uso delle percussioni, che si apre ancora di più nella forma canzone, ma anche in alcuni suoni, come quello dei fiati, che allargano il campo, danno respiro. "Amate e fate quello che volete" ripete in uno dei mantra dell'album, che arriva a quattro anni da "Terra": "Io passo da periodi di silenzio totale ad altri in cui parlo tantissimo, ma ci sta. Il modo che ho trovato è quello di immergermi e allontanarmi, fare delle full immersion, tanto so che dopo mi defilo ancora".

Ed è lì, in quell'allontanarti, che scrivi?

Ci ho messo quattro anni per pubblicare questo disco, mi rendo conto che sono tempi fuori luogo, però è indispensabile allontanarsi. Penso al CEO di Spotify che ha detto che gli artisti, per mantenersi, devono fare un disco ogni quattro mesi, e dal suo punto di vista economico capisco che ha senso: quello che arriva è una miseria, quindi se volete mantenervi dovete fare una marea di dischi, solo che non si tiene conto che il processo creativo non è quello di un'industria, che premi "on" ed esce la canzone. Ci sono dei ritmi che sono ingestibili e non controllabili, che hanno a che fare coi ritmi delle maree, del vento, non siamo macchine. Ormai abbiamo introiettato così tanto la visione dell'era industriale che crediamo di funzionare così. Quando, pubblicando un disco dopo quattro anni, mi parlano di blocco creativo rispondo che non ho mai avuto un momento di blocco creativo, perché semplicemente non mi sono mai sforzato mettendomi lì perché dovevo scrivere. Scrivo solo quando quando non ho un blocco e da sola sgorga qualcosa.

In una certa industria musicale funziona un po' a catena di montaggio. Però, ovviamente, te ne accorgi quando qualcosa non va.

Ma sì, il soffio della vita dentro, quel minimo di ispirazione diventa un lavoraccio.

Viviamo una società in cui praticamente non abbiamo più tempo non occupato. Quanto è importante per te il tempo libero?

Per me è importante prendersi uno spazio di silenzio, riflessione, studio, anche per fare qualcosa di completamente diverso. E che ritorni una necessità, ovvero quella di prendere una chitarra e suonare, poi dopo sei in mano a qualcosa di perfettamente aleatorio che è l'ispirazione. Io non ne faccio un vanto, è semplicemente l'unico modo che ho per riuscire a fare questa cosa, perché se mi mettessi lì a scrivere non mi verrebbe niente di decente, quindi non ho neanche scelta. Quello che faccio è inevitabile, è l'unico modo che conosco di fare questa cosa qua.

Tra l'altro le tue canzoni rompono anche una serie di regole che si è data l'industria, spesso sono flussi di coscienza, basta leggere il testo di "Chitarra nera".

Guarda, infatti non credo sia un caso che sono fuori dal mercato, nel senso che è il mio ennesimo disco autoprodotto, non ho mai fatto un disco con una casa discografica e sono tredici anni che faccio musica. Tra l'altro questo è il primo disco che faccio col mio nome, quindi più solo, ma l'ho condiviso come non mai, c'è un'orchestra intera, ci sono alcuni dei musicisti migliori che abbiamo in Italia, da Rodrigo D'Erasmo a Enrico Gabrielli, Alessandro “Asso” Stefana, Gabriele Lazzarotti, Mirco Mariani, Mauro Refosco…

Le sue percussioni danno un'atmosfera molto caratteristica…

Assolutamente, poi abbiamo anche fatto un enorme lavoro sui cori, con Paul Frazier che suona il basso con David Byrne, anche se è pure arrangiatore di cori, mi interessava capire cosa succedeva con le voci nere in mezzo a queste canzoni. Prima citavi Chitarra nera, che non ha neanche una forma canzone ed è stata la prima che ho scritto, in quel momento non mi interessava neanche scrivere canzoni, quindi l'ho lasciata libera, seguendo solo il filo della verità della cosa che sto dicendo, sentendo se è ancora possibile nelle canzoni aprirmi e condividere qualcosa di profondo con anche persone che non conosco. In "26000 giorni" dico "Siamo qui per rivelarci e non per nasconderci": nel momento in cui abbiamo i giorni contati è ancora più importante celebrare ogni momento della vita e rivelarsi ogni giorno in questo paesaggio terrestre. Però l'idea che ho avuto dall'inizio, come dogma, era di uscire come prima cosa con "Chitarra nera" che è stata la prima che ho scritto e quella che mi ha ancora posto al di fuori del mercato, nel senso che c'erano case discografiche con cui si parlava, nel momento in cui è stato chiaro, per me la questione che non era negoziabile – volevo che fosse il primo singolo – sono spariti gli interlocutori e quindi lì ho capito, il messaggio è arrivato chiaro.

Parlavo delle percussioni, tu dicevi i cori, ma anche i fiati che ti portano in mondi desertici, a volte. Si sente molto lo spazio, l'ampiezza, la stessa Chitarra nera, senza le parole ha un tappeto di ampiezza e… meditazione.

La parte sonora di Chitarra nera è fondamentale per la canzone, infatti, perché a noi arrivano subito le parole ma le parole ci arrivano in una canzone perché c'è quella parte musicale, anche se a volte non ce ne accorgiamo, ma l'efficacia di quella canzone è dovuto al 50% da quello che c'è sotto.

In Mezza nuda ci ho visto un po’ Nel profondo veneto”, poi ho ripensato a “Quando tornerai dall’estero”, è partita “Due animali in una stanza” in cui, appunto, si parte con l’immagine degli orecchini, presente anche in “Quando tornerai dall’estero”. Insomma, c’è una circolarità che non so se sia volontaria o meno.

Secondo me c'è ma io me ne accorgo come te, a posteriori, non ho grandi capacità decisionali rispetto alle cose che scrivo, quello che arriva, arriva. Mi sono accorto, per esempio, che Chitarra nera – che è la prima scritta, appunto – mette insieme quei ragazzi che c'erano in "Canzoni da spiaggia deturpata" perché sono quelli, quindici anni dopo: quello che è successo in mezzo, come è finita per uno, come è finita per l'altro, un po' come quel romanzo che avevo letto da ragazzino "Due di due" di Andrea De Carlo, due percorsi paralleli che si diramano in modi diversi, quindi anche in questo senso c'è una circolarità, è come se fossi ripartito da dove sono partito parlando di quelle storie lì e attualizzandole. In più ci sono anche dei bambini in questo disco, ci sono cose che poi crescono con me, mi rendo conto che per me c'è l'importanza dell'autenticità, quando mi metto a scrivere e in quello tutto cambia con me.

Continui a muoverti in campi semantici che sono a te cari, facendo anche dei cambiamenti di senso, penso al mare che in Adriatico assume una dimensione diversa rispetto a quello di "Terra". E aggiungendoci cose nuove, come la pandemia che, però, fa parte del puzzle, del racconto, non è "la canzone sulla pandemia", no?

È quello che ho cercato di fare, questa situazione è entrata di più nel "Sentiero degli dei", l'ultima canzone dell'album, e un po' in "Paesaggio dopo la battaglia" anche se lì ci sono tante Italie, di altre epoche. Non mi convince mai mettere dentro le canzoni l'attualità più stretta, c'è bisogno di un pizzico di universalità e di eternità nelle canzoni, di qualcosa che duri al di là di quel presente lì. Deve essere un documento storico ma c'è bisogno sempre di qualcos'altro. Non voleva essere un racconto di una situazione ma il punto di vista più intimo e personale su quella cosa, per poi ridare la giusta proporzione agli esseri umani: "Siamo solo due forme di vita nel terzo pianeta del sistema solare". Questa cosa ci ha molto ridimensionati, noi credevamo di essere i padroni anche dell'universo, non solo del pianeta e questa cosa ci ha rimesso nella giusta proporzione. E forse un altro dei temi che ritorna è quello delle leggi della città e delle leggi dell'universo, un'indagine tra queste due cose. Io poi sono uno che ama sia le grandi città che i piccoli paesini disabitati, ed è una riflessione che mi è partita da quando ancora c'era un altro tema, quello della migrazione, quando c'è stato il caso di Carola Rakete, in particolare. Ho visto che ormai se assecondi una delle leggi dell'universo, che è quella di aiutarsi tra esseri umani che stanno per morire, stai facendo addirittura qualcosa di illegale. Nell'assecondare una legge dell'universo stai trasgredendo una legge della città e questo mi ha colpito, diventando un punto d'ingresso nel fare il disco.

In "Paesaggio dopo la battaglia" c'è anche un po' di "Viva l’Italia" di De Gregori (tipo “porti chiusi in mezzo al mare” come “L’Italia che è in mezzo al mare”)?

Quando ho cominciato a scrivere questa canzone, venuta fuori, come sempre, un po' da sola, mi pareva che mi stessi infilando in una storia di cui forse non ero all'altezza, perché secondo me è una specie di canzone d'amore, per me imprevista, verso un altro tipo di entità. Ovviamente non puoi non pensare che ci sono state canzoni come "Viva l'Italia" o "Povera patria" perché sono monumenti che ancora scalciano, inarrivabili. Però sicuramente c'è un'eco di queste canzoni perché hanno fondato il nostro immaginario sul posto in cui siamo, quindi sicuramente qualcosa ci è entrato. La canzone di De Gregori aveva cose a lui contemporanee e cose del secolo prima e anche nella mia ci sono i partigiani di Fenoglio che scendono in discesa tra gli spari senza divisa e ci sono i rider che, invece, corrono in bicicletta tra le macchine, in missione per una multinazionale. Penso che entrambe le canzoni – ovviamente non voglio neanche paragonarle – hanno queste varie Italie, con contraddizioni che tornano e sembrano una legge immutabile.

Che paesaggio sarà dopo la battaglia?

Questo disco parla di battaglie di ogni tipo, ci sono battaglie intime oltre a quelle collettive, battaglie personali oltre a quelle universali, e dopo la battaglia c'è un paesaggio che è completamente nuovo, che è quello di prima con delle macerie, ma di base è cambiato, sta a noi decidere come viverlo. Gli esseri umani hanno la possibilità di cominciare 700 vite, quindi ogni paesaggio si presta a qualcos'altro. È un paesaggio che dopo la battaglia ha nell'aria un po' di pace, perché la battaglia, comunque sia andata, è finita e su quella pace si può pensare di costruire qualcos'altro. Per gli esseri umani è inevitabile, non c'è scelta sull'andare avanti, infatti in copertina ho messo questa Panda traballante che passa attraverso l'apocalisse come niente fosse.

Hai scelto "Amate e fate quello che volete" perché è un mantra perfetto anche per questi giorni?

Ha superato i secoli come mantra. Quando l'ho buttato in mezzo, mentre suonavo questo pezzo, mi sono detto: "Cosa sto facendo?", poi ha cominciato a sembrarmi forte. Adesso è una di quelle cose fraintendibili, perché abbiamo l'idea di questo amore che è più possessione che amore, invece lì l'idea era che puoi fare quello che vuoi se sei in quell'amore, perché è un amore in cui l'ego è messo da parte, non sto pensando a me, sto pensando di essere di beneficio agli altri, aperto agli altri, in quello stato puoi fare quello che vuoi perché è tutto eticamente corretto e moralmente giusto e non puoi muovere stando in quello stato e credo sia una bella esortazione che non per niente è arrivata fino a noi.

C'è anche un amore di coppia, nell'album.

Ci sono alcune canzoni d'amore atipiche, una è proprio Chitarra nera che tratta l'amore per un amico, una è "Paesaggio dopo la battaglia" e un'altra è "Due animali in una stanza", diversa dal solito perché normalmente celebriamo l'inizio di un amore o la fine, invece questo parla della parte in mezzo, che è meno cantata ma è la più importante, quella che impariamo a vivere perché nessuno ci ha insegnato come si fa, nessuno ci ha cantato quel momento lì, davanti al fatto che tutto cambia e noi siamo lì a dire ancora ancora ancora, è un mistero questa cosa. Il titolo è "Due animali in una stanza" perché l'idea è che veniamo da questo cogito ergo sum, ma non è così importante questo pensiero, per le cose importanti c'è qualcos'altro che decide per noi, non decidiamo cosa desiderare, non decidiamo a chi legarci, è l'animale che mi porto dentro che lo decide, come dice Battiato.

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