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Quali sono i percorsi del giornalismo musicale in tempo di crisi?

Si discute molto del futuro del giornalismo e poco, in Italia, almeno di quello musicale, nonostante i problemi che affronta il settore. Ecco quelli che sono alcuni dei punti principali di un dibattito che stenta a decollare.
A cura di Francesco Raiola
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Sono giorni caldi per la discussione su cosa sia oggi e dove vada il giornalismo in Italia. Nei giorni scorsi, infatti, a partire da una riflessione di Marco Alfieri, ex direttore de Linkiesta (dimessosi pochi giorni dopo il post a cui facciamo riferimento) sono usciti una serie di articoli sull'argomento, tra cui quello del direttore di Fanpage Francesco Piccinini, quello di Vittorio Zambardino, tra i fondatori di Kataweb e di Repubblica.it e di Federico Ferrazza, vicedirettore di Wired. Una discussione, quella sull'evoluzione del giornalismo, che va avanti da anni (forse da sempre) e si declina in tantissimi modi. In particolare, questa volta si trattavano di quali innovazioni servano affinché il giornalismo online possa camminare sulle proprie gambe, ma anche quale fosse l'essere del giornalismo mobile oriented (il "click" di cui parla Ferrazza, per intendersi). Una riflessione che nei mesi scorsi ha toccato anche il giornalismo musicale, non tanto in Italia, dove pure ce ne sarebbero di cose da dire, con la chiusura di riviste storiche e l'arretratezza delle versioni online di altre testate, ma che si è materializzata soprattutto all'estero. Nel nostro piccolo, Fanpage ha provato a discuterne con un panel all'ultimo Festival del Giornalismo di Perugia, ma questo mese anche Rumore ospita un po' di interviste sull'argomento e lo apprendiamo da un post di Emiliano Colasanti pubblicato su Soundwall che spiega come la rivista diretta da Rossano Lo Mele abbia provato a interrogarsi e interrogare se un "nuovo giornalismo musicale è (im)possibile".

UN NUOVO GIORNALISMO MUSICALE È POSSIBILE?

Chiedersi se un nuovo giornalismo musicale è (im)possibile è come chiedersi se lo è quello tout court, perché, in fondo, i problemi sono principalmente gli stessi. Qualche mese fa si è scatenato un bel dibattito in rete attorno a un pezzo del critico Ted Gioia sul Daily Beasts dal titolo “La critica musicale si è trasformata nel report di costume”, in cui il giornalista criticava la morte della critica soppiantata dal gossip: “La scomparsa del giudizio critico dalla copertura musicale può essere vista sullo spettrio completo dei media moderni. Le recensioni dei giornali sono state ridotte e molti critici musicali con competenze specifiche sono stati cacciati, soprattutto in quelle viste come categorie di ‘nicchia' come il jazz e la classica, generi che fruttano piche vendite ma con una lunga storia di critica intelligente (…). Un po' di critica interessante si è sviluppata nella blogosfera ma, con tutto quel rumore di sottofondo, avreste più possibilità di trovare una puntina Victrola in un Radio Shack (o anche un ago in un pagliaio, ndr)”.

Svariate, ovviamente, le risposte. Una delle più interessanti è quella di Jody Rosen su Vulture che in breve dice che molte cosa di cui parla Gioia sono vere (come la scarsità della qualità della critica pop), ma il problema è che il critico non fa distinzioni: “Per Gioia la critica musicale di oggi è uno svilito giornalismo di costumo che ciancia, punto”, ma basandosi solo su alcuni tipi di rivista e non altre più specialistiche: “Non c'è modo di capire a quali riviste facesse riferimento Gioia, dal momento che non ne cita di specifiche” continua Rosen per cui, in soldoni, il buon critico pop è quello che fonde le abilità tecniche di cui parla Gioia a una visione d'insieme, suono e spettacolo, discografia e tecnologia.

CARTA VS DIGITALE. ANCORA?

Insomma cosa è il giornalismo musicale oggi? È veramente paragonabile a quello che era quello cartaceo? Bene, prendendola alla larga si potrebbe cominciare col dire che uno degli errori che fa certo giornalismo online è quello di copiare quello cartaceo (come spiega anche Francesco Piccinini), un'accusa che Colasanti capovolge, vedendo nel nuovo giornalismo cartaceo un inseguimento a quello sul web (e l'esempio dei link a fine pezzo sulla carta calza a pennello): “Le riviste cartacee sono diventate sempre meno importanti e sempre più marginali proprio perché si sono arrese al ruolo delle inseguitrici”. Anche qua, però, si rischia di cadere in un peccato che ho spesso notato negli anni in cui ho lavorato, prima come caporedattore, poi come direttore ad AgoraVox – una delle principali esperienze di citizen journalism del nostro paese -, ovvero quello della carta contro l'online. Spesso, nei miei cinque anni ad AgoraVox, ho provato a far capire (ovviamente non ero l'unico né il più autorevole, ma lo facevano molto meglio giornalisti come Mathew Ingram di GigaOm, ad esempio), che cercare di mettere in piedi una lotta tra giornalismo “tradizionale” (vi prego, passatemi il termine) e citizen era ridicolo, perché, ovviamente, il secondo non era in antitesi al primo (come abbiamo più volte visto e come si conferma nel tempo) bensì poteva esserne uno strumento di sviluppo. Allo stesso modo guardare carta e digitale come due entità in lotta fa un certo effetto e quello che scrive Colasanti è vero fino ad un certo punto: “Credo che il modo in cui si racconta la musica su carta sia essenzialmente diverso da quello del web; credo che ci sia bisogno e spazio per un approfondimento serio e che si possa parlare di musica ‘nuova' con la stessa competenza con cui spesso si affronta quella ‘vecchia'” benché l'approfondimento serio, credo, non dipenda dal mezzo. Un'intervista su The Quietus o un pezzo stupendo di Eric Harvey su Pichfork su “Passato, presente e futuro della musica in streaming”, giusto per citare due esempi pop non sono da meno di quello che si può trovare sul cartaceo e anzi le potenzialità multimediali del mezzo digitale (“Snowfall” insegna) danno tante possibilità in più. È altresì vero che il ruolo del giornale di carta è sempre più quello di virare verso l'approfondimento o comunque puntare meno sull'attualità visto che per sua natura e per quella del digitale la sua è una battaglia persa (come dimostrarono definitivamente le scorse elezioni americane e come spiegò bene Tedeschini Lalli in questo suo post).

E allora questa storia del click è falsa? Nient'affatto. Quello che si dovrebbe capire (e, anzi, avere anche ormai ben chiaro in mente) è che il gattino serve (o, almeno, dovrebbe servire) a poter finanziare inchieste e reportage che difficilmente, purtroppo, potrebbero camminare sulle proprie gambe e i nuovi media come Buzzfeed o l'Huffington Post Usa hanno dimostrato: partite dal Lulz per poi vincere Pulitzer (l'HP, almeno, ma Buzzfeed e compagnia stanno sviluppando sempre più le proprie redazioni di news). Poi ci sono anche le eccezioni e, anche qua, mi torna in mente un esempio francese come Mediapart, esperimento di pure player con abbonamento sostenibile. Eccezioni, appunto.

GIORNALISMO O CRITICA MUSICALE?

“Col tempo è cambiato il fine ultimo e il significato stesso della parola critica, e la colpa è essenzialmente nostra. Di quelli che scrivono” scrive Colasanti e uno dei punti è proprio questo, ovvero la differenza tra giornalista musicale e critico musicale che attualmente, checché ne pensino molti, sono due figure diverse. Non una migliore e una peggiore, ma diverse; talvolta coincidono, ma non sempre succede e spesso questa cosa è vista come colpa. Il ruolo del critico, in effetti, all'interno dei giornali è molto cambiata, ma la colpa – se di colpa vogliamo parlare – credo sia attribuibile più a un'evoluzione tecnologica, piuttosto che a una precisa volontà dei giornali. Una volta, ai tempi di Lester Bangs, per citare un critico che compare nel pezzo di Soundwall, l'accesso alla musica era molto limitato e il critico era una figura imprescindibile. All'epoca, ma anche in tempi più recenti (la rivoluzione digitale di massa, ricordiamolo, risale a pochi anni fa), la recensione era un faro nel mare magnum della produzione musicale, che con le nuove tecnologie non solo si è moltiplicata esponenzialmente, ma è anche diventata più accessibile e con lo streaming, ormai, alla portata di tutti. La smaterializzazione del prodotto, la morte del supporto fisico si è accentuata in questi ultimi anni, soprattutto con l'avvento delle piattaforme di streaming, mettendo fine alla necessità del possesso della musica e spalancando le porte a un catalogo musicale sconfinato a cui si può accedere con un click. La recensione, insomma, ha perso sempre più quel ruolo di appiglio e aiuto nel selezionare le (poche?) cose che si potevano comprare permettendo a chiunque di farsi un'idea di quello che gira attorno, portando all'eccesso il processo di disintermediazione spinto dallo sviluppo dei social: il giornalista, insomma, ha smesso, quasi del tutto, di essere al centro di quella linea immaginaria che unisce musica e lettore, ricalibrando il proprio compito. Se proprio vogliamo trovare ancora un appiglio, quello resta senza dubbio l'autorevolezza del giornalista, più che la recensione in sé. Per alcuni siamo nell'era della personificazione dell'informazione, ovvero il meccanismo per cui ormai l'autore viene prima della news, l'autorevolezza del brand del giornale è secondario rispetto a quello del brand dell'autore: è successo con Nate Silver, il cui blog durante le elezioni portò una quantità di traffico enorme al sito del NYTimes, grazie alle sue previsioni, o l'esempio di Andrew Sullivan che è passato dal Time all'Atlantic fino al Daily Beasts per poi decidere di giocarsi la partita da solo. Ma ogni discorso definitivo rischia di essere smentito nel giro di poco tempo.

Ma il punto, alla fine, è capire se abbiano ancora senso le riviste cartacee. Pitchfork ha cominciato da poco a uscire in versione cartacea, andando contro quella che è la tendenza generale (“The Pitchfork Review ci permetterà di estendere la nostra passione per la musica, le immagini, e lo storytelling in una nuova arena”), ma guardando al nostro paese, questo attaccamento alla carta (e probabilmente ai finanziamenti pubblici) ha portato alla situazione ridicola di storiche testate senza o con versioni digitali arcaiche e alla chiusura di due riviste come Rolling Stones (che tornerà in edicola a settembre con un altro editore) e XL che continuano a vivere solo nelle versioni digitali. No, il web non è la panacea per tutti i mali ed è vero che spesso la potenziale infinità della rete spaventa e porta a una sovrabbondanza di contenuti e del flow di informazione in cui spesso è difficile muoversi, ma anche qua bastano il buon senso e l'accortezza che si usavano quando si sceglievano le riviste cartacee, se non si potevano comprare tutte, oltre al famoso passaparola.

Colasanti, alla fine si chiede: "Ma non sarebbe meglio che tutte queste riviste si trasformassero in trimestrali o semestrali, sempre più simili a libri da conservare, con grafiche più curate, linee editoriali più personali, e articoli di quelli che non capitano tutti i giorni?" e se dovessi dare una risposta, direi di sì, e direi che non mi spiacerebbe vederle prendere spunto da “XXI”, un trimestrale francese fatto, tra le altre cose, di reportage scritti, fotografici e disegnati. Un oggetto bello da collezionare, colorato, con una copertina disegnata, posata in orizzontale, che tratta (bene) argomenti non per forza mainstream (o almeno era così finché lo compravo).

Insomma, il giornalismo tutto cambia e con lui anche quello musicale. Io, intanto, aspetto che in edicola esca Rumore (fino a qualche giorno fa ancora non era uscito), mi leggo il dossier e do anche uno sguardo al nuovo inserto di Carlo Bordone sulla musica anni 70 (“50 X 70”).

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