Concedetemi due strappi alla regola che peraltro non ho mai esplicitamente fissato: questo martedì la rubrica è scritta in prima persona e si occupa di un tema meno underground del solito… ma fino a un certo punto, giacché due dei quattro artisti citati si muovono a tutti gli effetti nel circuito rock alternativo e gli altri due, benché più famosi e visibili, non sono certo allineati agli stereotipi della musica di consumo. Allora, come dovrebbero sapere persino i sassi sei giorni fa sono stati annunciati i vincitori delle “Targhe Tenco”, che saranno consegnati nell’ambito del Medimex di Bari il prossimo 8 dicembre. È la trentesima volta consecutiva che il Club Tenco, dedito dal 1974 a un’encomiabile, tentacolare opera di promozione della canzone d’autore, attribuisce i suoi riconoscimenti alle migliori uscite della precedente stagione discografica affidandosi a un’ampia giuria della quale mi onoro di far parte. Da quel 2006 in cui la direzione stabilì saggiamente di eliminare il premio al singolo brano, davvero troppo dispersivo, le categorie sono state limitate a quattro: primo album, album di interprete, album in dialetto e ovviamente miglior album in assoluto. Semplice il meccanismo: i circa duecento giornalisti coinvolti – si tratta della giuria più estesa di tutte per manifestazioni italiane di questo genere – indicano per ogni sezione tre preferenze, e dal loro conteggio derivano le cinque nomination. Gli stessi duecento sono poi chiamati a pronunciarsi, con un unico voto per ciascuna Targa, solo su questi venti titoli (qualcuno in più, in caso di ex aequo). Una questione squisitamente aritmetica, insomma, ed è una lodevole prova di trasparenza – da noi, nemmeno a torto, si è abituati a pensar male – che le scelte di tutti siano rese pubbliche presso il sito www.clubtenco.it.
Non mi dispiacerebbe raccontarvi qualche aneddoto sul martellamento degli uffici stampa che, in prossimità delle votazioni, inviano mail su mail a mo’ di promemoria, ma sarebbe sterile e forse irrispettoso nei confronti di chi fa il suo lavoro. Vi dirò dunque subito di essere rimasto sorpreso e felice dell’affermazione fra i debutti de “Il testamento” di Appino. Si potrebbe rilevare, e qualcuno l’ha fatto, che è buffo premiare come cantautore esordiente uno che come cantante, chitarrista e songwriter di una band – gli Zen Circus, ovviamente – aveva in precedenza realizzato addirittura sette album, ma se le Tavole della Legge recitano che è giusto così non ha senso discuterne. Bello, però, che la vittoria abbia arriso a un lavoro così abrasivo e inusuale, la cui arma più efficace è l’assoluta, coraggiosa autenticità con la quale il suo artefice ha messo a nudo se stesso e il suo mondo. Consensi ancor più rilevanti in termini numerici sono stati ottenuti, nel settore “in dialetto”, dal disco senza titolo di Cesare Basile, che nell’edizione in vinile contiene un altro LP, “Le ossa di Colapesce”: densa, e magari un po’ ostica per i non avvezzi a certe singolari espressioni di folk-rock “dell’anima”, l’ottava fatica di studio del musicista catanese – nonché attivissimo agitatore culturale a favore della sua Sicilia – è oltretutto un riconoscimento ai venticinque anni abbondanti di una carriera pressoché inappuntabile all’insegna della profondità e della costanza.
D’accordissimo, e non solo perché ho dato la mia preferenza a lui (come, del resto, ad Appino e Basile), pure sulla Targa conferita all’ex La Crus Mauro Ermanno Giovanardi per “Maledetto colui che è solo”, curiosamente (ma brillantemente) registrato assieme all’orchestra di ukulele Sinfonico Honolulu: cinque brani autografi e sette interpretazioni che spaziano da Celentano a Buscaglione passando per Ciampi, Capossela, Radius, De André e… La Crus per un artista di gran classe, devoto a un’estetica Sixties ma a ben vedere fuori dal tempo, che fra l’altro possiede una delle voci più suggestive del panorama nazionale. Per l’ultima targa, la principale, ero un po’ titubante: ho puntato su “Fantasma” dei Baustelle in virtù della sua audacia creativa e della sua raffinatezza, ma “temevo” che si sarebbe imposto Francesco Guccini (più per l’annuncio del ritiro dalle scene che per un album discontinuo come “L’ultima Thule”) o Francesco De Gregori (“Sulla strada” vale, ma lui di Tenco ne ha già conquistati ben quattro e per il momento può accontentarsi). Avrei comunque gioito per Alessandro Fiori (“Questo dolce museo”) o Alessio Lega (“Mala testa”), “giovani” (fra virgolette, ok) per i quali si deve ormai parlare di certezze e non più di promesse, ma alla fine ritengo che “Ecco” di Niccolò Fabi abbia meritato ampiamente la corona: per la sua qualità complessiva, ovvio, nonché per l’ispirazione e la tenacia storicamente mostrate dal quarantacinquenne romano nel dar vita a un pop di spessore che elude le soluzioni banali e di maniera per coltivare la propria intensa personalità.
Che il Club Tenco, complice il salutare “svecchiamento” nella giuria, si stia sempre più scrollando di dosso la diffidenza per le forme non proprio tradizionali della canzone d’autore è in ogni caso un segnale positivo per la nostra musica. Indipendentemente dall’opinione di ciascuno sull’utilità effettiva di qualsiasi targa, premio o alloro.