Streaming: un nuovo modello di business che si scontra coi musicisti
Il mondo dello streaming continua ad essere al centro del dibattito se parliamo di industria musicale. La ricerca di un modello di sviluppo soddisfacente per chi investe e per gli artisti ha mosso i primi passi e ora cerca di assestarsi e trovare la quadra, ma il percorso è ancora lungo.
Lo sa Daniel Ek, CEO di Spotify, forse la regina del settore, che in un'intervista data il 6 agosto al Wall Street Journal ha dichiarato a proposito del loro modello di business: "Fino ad ora abbiamo mostrato qual è il nostro modello di business. La differenza tra ciò che paghiamo in royalties e ciò che incassiamo attualmente, aumenta. E questo è positivo". Una dichiarazione che arriva a pochi giorni dalla scoperta delle perdite reali dell'azienda svedese. La perdita dal 2008 al 2012, stando a quanto riporta Digital Music News, è di 206 milioni di dollari. La lettura dei numeri, si sa, è un po' più complessa e infatti è vero che anche se si guarda all'ultimo anno le perdite sono in aumento rispetto agli anni precedenti – nel 2012 sono state di 58,7 milioni rispetto ai 45,4 del 2011 – ma è pur vero che i guadagni sono raddoppiati assestandosi ai 435 milioni nel 2012, non sufficienti, certo, a coprire le perdite al punto da far dichiarare all'azienda di "non escludere il bisogno o desiderio di trovare più fondi in futuro per sovvenzionare iniziative future più grosse".
Techcrunch ci dice che il 70 percento di quanto guadagna Spotify lo paga in royalties alle etichette discografiche (e non agli autori, attenzione) e sottolinea che Pandora va un po' meglio, ma che, comunque, se nel breve periodo problemi per le due aziende non dovrebbero essercene, vista la facilità – per ora – di trovare capitale, nel lungo il problema si pone. Ma Ek è ottimista e perché non credergli?
Intanto due giorni fa è entrata a gamba tesa anche Google che con la nuova piattaforma Google Play Music Unlimited si getta, seppur in ritardo, nel mondo dello streaming anche in Europa, coprendo un buco che agli occhi dei più era incomprensibile. Ma lo fa con forme diverse dalle altre, soprattutto – principalmente – per il modello di business, laddove non esiste una gratuità d'offerta se non limitata ai primi 30 giorni di prova a cui seguirà un abbonamento obbligatorio (che per le altre vale solo per le versioni mobile).
Ed è di pochi giorni fa la notizia che anche Grooveshark sta cercando accordi con le etichette discografiche per mettersi in regola e porre fine alle varie cause che ha contro, dopo aver trovato un accordo con la EMI.
Ma il problema del trovare le risorse necessarie per mantenere viva l'attività non è l'unico pensiero che queste aziende devono affrontare. Forse quello principale è l'assenso degli artisti, cosa non affatto scontata, come le polemiche di queste ultime settimane hanno dimostrato. Non sono passati inosservati – come avrebbero potuto – i tweet critici di Nigel Godrich e ancora di più quelli di Thom Yorke che accusano Spotify, e le piattaforme streaming in generale, di non aiutare gli artisti piccoli e le etichette indie: Godrich ha twittato: "Il modo in cui lavora Spotify è che i soldi sono divisi in percentuale a seconda degli stream totali. Le grandi etichette hanno un enorme catalogo, così i dischi vecchi di quarant'anni di un artista morto gli fanno guadagnare la stessa fetta di torta di una canzone nuova di un nuovo artista". Di cifre irrisorie ha parlato anche Brian Molko, leader dei Placebo che pochi giorni fa ha dichiarato: "La somma che si potrebbe ottenere mi sembra irrisoria al momento (…) Non credo che [Spotify] abbia nulla a che vedere con la lotta alla pirateria o col fornire un servizio che è buono per l’industria e per le nuove band. Sono solo interessati a fare soldi alle spese di altri”
La polemica di Yorke e Godrich, insomma, ha scatenato una coda lunga di vari interventi, ma già qualche settimana prima c'era stato David Lowery, fondatore dei Cracker e dei Camper Van Beethoven, che aveva fatto i conti di quanto aveva guadagnato per il milione di stream di un suo brano e, prima ancora, in un pezzo assolutamente da leggere, era stato Damon Krukowski dei Galaxie 500 e Damon and Naomi a spiegare in un editoriale su Pitchfork le dinamiche dello streaming e delle revenue per gli artisti. Anche il più importante sindacato inglese dei musicisti ha chiesto un nuovo accordo tra le aziende di streaming e i musicisti, come riportava il Guardian.
A poco sono servite le spiegazioni di Spotify che ha promesso maggiori investimenti: "Abbiamo già pagato 500 milioni di dollari a i proprietari dei diritti fino ad ora e dalla fine del 2013 questo numero raggiungerà il milione. Molti di questi soldi sono stati investiti per promuovere nuovi talenti e produrre nuova musica”.
La polemica, però, non è fine a se stessa, ma parte integrante di un discorso più ampio che riguarda il futuro dell'industria discografica. È difficile non comprendere l'importanza dello streaming nell'economia del mondo musicale (più del crowdfunding, altro aspetto che molti vedono come una manna) che ha messo in difficoltà anche ciò che fino a poco fa era il futuro della musica, ovvero iTunes, ma è altrettanto vero che evidentemente un problema c'è ed è quello dei guadagni degli artisti, ma soprattutto della differenza tra quelli famosi e quelli giovani. Sarà difficile, almeno finché le perdite aumenteranno, pensare che le revenue per gli artisti possano essere incrementate, nonché ingenuo pensare che possano esserci accordi differenziati tra le aziende major e indipendenti a vantaggio di questi ultimi, contando anche la differenza di stream portati alle diverse piattaforme (che guadagnano anche in base al numero di ascolti, ovviamente). Il pubblico, però, cresce e questa è una buona notizia o almeno lo è per le aziende che da questo aumento di abbonamenti potranno trarre più vantaggi e soldi.
La discussione è aperta e non crediamo morirà (o troverà una soluzione) a breve.