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Se Giorgio Gaber fosse stato Dio

Trentacinque anni fa, settimana più settimana meno, Giorgio Gaber e Sandro Luporini concepivano il brano più esplicito e controverso del loro straordinario sodalizio. Riparlarne è sempre cosa buona e giusta.
A cura di Federico Guglielmi
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“Ci sono volte in cui mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio ruolo e il mio lavoro sono quelli di dire le cose che gli altri non dicono, che i giornalisti non hanno più il coraggio di scrivere”. Parole pesanti, che potrebbero essere state pronunciate oggi da un intellettuale di quelli che non riescono proprio ad arrendersi al “tira a campare”. Risalgono invece al novembre del 1980 e sono tratte da un’intervista di Michele Serra apparsa sulle pagine de “L’Unità”. In essa, Giorgio Gaber si collegava a una canzone diffusa su vinile in quei giorni, una canzone particolare che la casa discografica dell’artista – la Carosello – non aveva assolutamente voluto inserire nell’album “Pressione bassa”, uscito nello stesso periodo. Ma Gaber e Sandro Luporini, coautore del magnifico repertorio del Teatro Canzone, non potevano rinunciare a quei 14 minuti e mezzo di sfogo e invettiva, e si accordarono con la F1 Team, un piccolo marchio-satellite della Panarecord; fu così confezionato un mezzo LP con un unico pezzo, “Io se fossi Dio”, collocato sulla prima facciata. La seconda era liscia, la copertina era essenziale e nera. Non poteva essere altrimenti.

Non era semplicissimo, all'epoca, trovare nei negozi il mezzo LP. Sporadicamente capitava di ascoltarlo sulle frequenze di qualche radio libera, ma in linea di massima “Io se fossi Dio” sembrava far paura; perché, appunto, diceva ciò che andava detto, senza filtri, attaccando – con la sciabola, più che con il fioretto – i mille vizi dell’Italia degli anni ‘70. Nessuna pietà per nessuno: la borghesia, i giornalisti, la magistratura e il mondo della politica, che “è schifosa e fa male alla pelle / E tutti quelli che fanno questo gioco / che poi è un gioco di forza ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo /e tutti quelli che fanno questo gioco / c’hanno certe facce che a vederle fanno schifo / che siano untuosi democristiani o grigi compagni del PCI / Son nati proprio brutti /o perlomeno tutti finiscono così”. Si legge l’intero testo e, rapportandolo alla società di allora, ci si stupisce di come la certezza di sequestri e querele su cui la Carosello aveva fondato il suo gran rifiuto fosse un innocuo spauracchio. Nessuna conseguenza di carattere legale, nemmeno per i riferimenti (tutt’altro che apologetici, ovviamente) al terrorismo, o ai versi che, con la ferita dell’omicidio Moro ancora aperta, denunciavano l'atteggiamento della Casta e dei media (“E se al mio Dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara / gli fa anche rabbia il fatto che un politico qualunque / se gli ha sparato un brigatista / diventa l’unico statista”), concludendo la riflessione con due strofe al vetriolo: “Io se fossi Dio / quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio / c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro / insieme a tutta la Democrazia Cristiana / è il responsabile maggiore di vent’anni di cancrena italiana. Io se fossi Dio / un Dio incosciente, enormemente saggio / c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera / ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora / quella faccia che era”.

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Denunce, come si diceva, nessuna. Anzi, il mezzo LP divenne un caso culturale (mezzo) sommerso, fino a quando alla fine di maggio del 1981 “L’Espresso” allegò a tutte le copie un flexi-disc – un dischetto di plastica flessibile, molto più leggero ed economico di un vinile – nel quale si alternavano stralci del brano e di una conversazione con un grande del giornalismo, Sergio Saviane. In un’intervista di dieci anni più tardi, Gaber ricordò la canzone – che nel tempo avrebbe conosciuto revisioni e aggiornamenti – come “un urlo contro l’incomunicabilità, la violenza dilagante, le paure, la solitudine, la massificazione, i conformismi, la politica, la noia, i condizionamenti del sistema e della società. L’ipotesi di essere Dio (un’ipotesi, s’intende) consentiva al protagonista di dire delle cose che, umanamente parlando, non avrebbe potuto dire”. E ancora, nel 1993: “Ho preso a pretesto Dio per dire cose apocalittiche. In quel periodo l’invettiva poteva forse avere ancora un senso, rappresentando l’indignazione che molti di noi avevano dentro. Ora abbiamo raggiunto un punto in cui a indignarsi si rischia di essere patetici, e quindi non credo che oggi avrei la stessa rabbia di allora”. Profetico ma non troppo, come dichiarato da vari passi de “La razza in estinzione”, sorta di sequel sempre caustico nei concetti (benché con maggiore disillusione) e ipnotico nelle trame musicali che nel 2001 venne incluso nell’ultimo album edito con Gaber ancora in vita, “La mia generazione ha perso” del 2001. In ogni caso, “Io se fossi Dio” rimane una pietra miliare, affine ad altri capolavori di colta denuncia socio-politica come ”La domenica delle salme” di Fabrizio De André (1990) e “Nostra signora dell’ipocrisia” di Francesco Guccini (1993). Riascoltarla e rendersi conto di come, in un abbondante terzo di secolo, la sostanza sia cambiata ben poco, è tutt’uno. E mette addosso un bel po’ tristezza.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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