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Rock italiano: dischi gratis come soluzione?

Riflessioni sparse, magari inconcludenti ma non campate in aria, sul senso del disco, fisico o liquido che sia, nella gabbia più o meno dorata della nostra musica cosiddetta alternativa.
A cura di Federico Guglielmi
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Ad accendere la classica lampadina sormontata dalla grande scritta “eureka” è stata la questione affrontata su questa pagina virtuale martedì scorso, ovvero il nuovo album degli Africa Unite regalato in Rete dalla band. Un’idea certo non rivoluzionaria in termini assoluti, visto che iniziative non uguali ma in qualche misura affini furono varate persino da Radiohead e U2, che offre però l’opportunità di soffermarsi un po’ su quello che accade nell’ambito del rock nazionale, settore alternativo-emergente. Non parlando di musica come di norma si fa, bensì provando ad andare un minimo “dietro le quinte” e porsi qualche domanda. Nel caso della compagine torinese che da sempre fa capo a Bunna e Madaski, il quesito è fin troppo ovvio: perché un gruppo con una storia lunga e gloriosa alle spalle, scandita da dischi pubblicati persino da etichette multinazionali, decide di registrare un album con tutti i crismi – uno vero, insomma, non uno di materiali di scarto o riciclati – e di farne omaggio in Internet sotto forma di file, seppure riservandosi la facoltà di vendere il CD e il vinile? Scontata pure la risposta: perché, facendosi conoscere da più persone e “ricordando” in modo roboante la propria esistenza a estimatori, curiosi e distratti, conta di incrementare le presenze sotto i suoi palchi. “Il punto di partenza”, almeno nella sua veste liquida e non fisica, ha dunque la natura, accessoria, di operazione promozionale: un tempo si facevano i concerti per promuovere i dischi, ora si fanno i dischi per promuovere i concerti.

Con la loro strategia, gli Africa Unite hanno evidenziato la realtà che è da tempo sotto gli occhi di chiunque voglia vederla: i dischi interessano poco, molti negozi sono morti, i clienti di quelli che resistono non sono numerosi come una volta e, comunque, gli introiti che da essi derivano per i musicisti sono trascurabili se non addirittura ridicoli, a meno di non chiamarsi Ligabue, Jovanotti, Vasco Rossi o De Gregori. Meglio soffocare ogni velleità di distribuzione capillare e puntare sui live, ai quali la gente va ancora – sebbene l’offerta sia eccessiva, ma non divaghiamo – e, se appagata, spende con piacere al banchetto del merchandise. Album equiparati alle T-shirt, allora? Non proprio, perché una raccolta di canzoni rimane un documento artistico e una maglietta di solito no, ma sul piano commerciale… beh, siamo lì, con la differenza che la seconda costa molta meno fatica del primo; e soldi, perché se confezionare industrialmente un migliaio di compact – case/booklet e SIAE compresi – è roba da duemila euro, non bisogna dimenticare che i brani vanno provati, incisi, mixati, masterizzati. Di nuovi dischi non si può però fare a meno, perché accendono l’attenzione mediatica e “giustificano” i tour; portare ciclicamente in giro il proprio “greatest hits” è OK, ma per quanto si può farlo senza generare il “che palle”? Un nuovo album ogni tanto serve, fosse pure per far dire che non è all’altezza dei precedenti che “i vecchi pezzi erano un’altra cosa”.

Di sicuro, per gli artisti che vantano uno zoccolo duro di migliaia di persone, lo smercio diretto ai concerti dei CD (e dei vinili) non può diventare un business – i “numeri”, lo si è detto, sono impietosi – ma può costituire un piccolo sostegno dell’attività; un sostegno “psicologico” oltre che economico, perché se suonando davanti a duecento spettatori piazzi venti CD, cinque vinili e dieci T-shirt vuol dire che hai colto nel segno, altroché, e ti sei messo in tasca un paio di centinaia di euro netti. Poi, certo, i dischi commercializzati con queste modalità semi-carbonare non rientrano nei conteggi dai quali derivano le classifiche ufficiali, ma… siamo seri, c’è ancora qualcuno, almeno qui in Italia, che dà peso alle classifiche, o che perde solo tempo a guardarle? L’istinto di sopravvivenza sta dunque spingendo l’ambiente alternativo sempre più verso una dimensione artigianale e autarchica, accentuando le distanze fra il mercato ufficiale delle superstar, delle major, dei talent, dei grandi network e di Amazon e quello “sommerso”, o comunque meno illuminato dai riflettori? Parrebbe di sì, ed è una situazione da tenere d’occhio.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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