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Quarant’anni di ‘Station to Station’: quando già Bowie esorcizzava la morte con la musica

Era il 1976 quando uscì ‘Station To Station’, uno dei capolavori di David Bowie, che lo trasformò nel Duca Bianco e in cui si trovano già i primi segnali di quello che sarebbe stato ‘Blackstar’.
A cura di Pier Luigi Razzano
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David Bowie al Wembley Stadium durante il tour di Station to Station, nel 1976 (Getty Images)
David Bowie al Wembley Stadium durante il tour di Station to Station, nel 1976 (Getty Images)

Se si vuole assecondare il gioco estenuante delle interpretazioni inseguendo simbologie, richiami, messaggi cifrati spediti da altre dimensioni, codici da tradurre unendo puntini invisibili, allora è vero, fin troppo agghiacciante, non si è discusso di altro dopo il 10 gennaio appena è arrivata l’inaspettata notizia della morte di David Bowie, che tutti consideravano acciaccato, invecchiato, eppure ancora capace di entrare in studio di registrazione per “★” (“Blackstar”). Per molti diabolico al punto da programmare la morte con l’uscita dell’album. Esagerazioni, inquietudini, per gli adepti al mistero facile e rassicurante un immediato aggiornamento della popolazione di quella famosa isola segreta dove sarebbero rintanati Jim Morrison, Elvis, Michael Jackson stanchi dello showbiz. Se poi ci metti i davvero inquietanti versi iniziali di “Lazarus”, “Look up here, I'm in heaven / I've got scars that can't be seen”…

A completare il quadro degli sparpagliati puntini invisibili, per gli assetati di narrazioni con colpo di scena finale, si aggiunge il video di “Lazarus”, correlativo del trapasso dallo stadio terminale in un letto di ospedale all’imminente morte trasposta in un Ade spalancato che attende Bowie oltre l’armadio.

È giusto spezzare il filo rigido delle interpretazioni, oppure assecondarle portandole su un altro binario, a partire proprio dal video di “Lazarus”. A condurre i giochi c’è sempre lui, Bowie. In tutte le direzioni. Morente canta “Look up here, man, I'm in danger / I've got nothing left to lose”, finché non si sovrappone un’altra immagine, di un Bowie senza bende sugli occhi, più vivo, frenetico; sembra voler cancellare la morte imminente, spezzarla con posa plastica e muscolare nella tutina nera con lame argentate su petto e gambe. Canta di quando era un re. L’artista che cita e guarda al se stesso nel periodo più fertile della sua carriera.

La tutina risale al 1976, indossata per le session fotografiche di “Station to Station” – poi aggiunte nella riedizione in cd – l’album che uscì esattamente quarant’anni fa, il 23 gennaio, che più di ogni altro segna una rottura netta, la volontà di uscire dall’incubo dell’ultimo anno vissuto come in una dimensione parallela e allucinata di cocaina, sprofondato in un mondo rovesciato e schizoide dominato dalle credenze occulte di Aleister Crowley, interessi per l’egittologia, la cabbala, infatuazioni per i testi di Madame Blavatsky, e ancora: la numerologia, l’iconografia nazista e gli studi sulla ricerca del santo Graal. Un grande caos regnava dentro di lui.

Il 1975 è stato un anno lungo e duro per David Bowie, come lo sarà stato anche il 2015. Dopo la pubblicazione nel 1975 di “Young Americans”, altra mutazione, altra morte e rinascita artistica alla ricerca della propria “negritudine”, conquistando gli Usa con un funky bianco, Bowie era sull’orlo di una crisi irreversibile. Distanza, recriminazioni, brevi riappacificazioni con la moglie Angela, la morsa velenosa del manager Tony DeFries finalmente spezzata, il passaggio per breve tempo con Michael Lippman, dichiarazioni come «il rock’ n’ roll è morto, è una vecchia sdentata» al “New Musical Express”. I giorni losangelini nella casa di Doheny Drive furono la sua discesa all’inferno.

Tende abbassate tutto il giorno per impedire che il sole appiccicoso rovinasse «la vibrazione di eterno presente». Per cibo solo latte, peperoni verdi e rossi, letture caotiche sul misticismo. Fiumi di cocaina. E le leggende sui demoni che uscivano da fotografie, delle urine conservate in frigo, groupie-streghe che volevano rubare il suo seme, sabba attorno a candele, la convinzione che nei dischi dei Rolling Stones ci fosse un messaggio segreto per lui. Il 1975 fu un perenne “week end perduto”, come quello del suo eroe John Lennon, caduto in un vortice di sbronze e autodistruzione prima di ritornare da Yoko Ono. Bowie si era trasformato in Thomas Jerome Newton, “L’uomo che cadde sulla terra”, il film di Nicolas Roeg (tratto dal romanzo di Walter Tevis) che interpretò quell’anno, con riprese nel deserto del New Mexico, senza più distinzione tra vita reale, finzione, immaginazione, spettri, tante angosce. Bowie era proprio come l’alieno arrivato sulla Terra che perde sogni, speranze, l’obiettivo di salvare il proprio pianeta, prosciugato dalla corruzione dell’America.

E se si vuole proseguire ad attorcigliare il filo invisibile che lega “★” a  quarant’anni fa, “Lazarus” è anche colonna sonora dell’omonimo musical scritto da Bowie con Enda Walsh, diretto da Ivo van Hove, sequel de “L’uomo che cadde sulla terra”.

Unica soluzione per l’uscita dal baratro, quarant’anni fa, come prima della morte, fu la musica. “Station to Station” diventò il suo esorcismo. Rientrato in studio, ai Cherokee e al LA Record Plant di Hollywood, ritrovò al suo fianco Carlos Alomar e Earl Slick alle chitarre, il batterista Dennis Davis, George Murray al basso, non più Mike Garson al piano (perché perduto dietro Scientology), ma Roy Roy Bittan della E-Street Band di Springsteen; produttore Harry Maslin, e giù notte e giorno in session furibonde, interminabili, al punto da durare per ben 24 ore di seguito. A Earl Slick chiedeva riff nervosi, feedback tiratissimi, da tenere più al lungo possibile. Estenuare la vibrazione presente per poterne uscire.

Un assaggio del nuovo lavoro, il pubblico americano lo ebbe ritrovandosi Bowie, stranito, ubriaco, impacciato e in playback durante la trasmissione Soul Train nel novembre del ‘75, cantando “Golden Years”. Ancora un sinuoso esempio di soul dell’uomo bianco, come in “Young Americans”, però già innervato del sound freddo, del metallo incandescente che avrebbe attraversato tutto “Station to Station”. Era già pronto per presentare al mondo la nuova maschera del “Duca Bianco”. Un album di solo cinque brani inediti più “Wild is the Wind” di Tiomkin e Washington, cover di un vecchio film western, e omaggio alla versione più celebre, fino a quel momento, di Nina Simone.

Il funky dell’ultimo anno stava diventando la vecchia sdentata, e Bowie guardava al “canone europeo”, tendeva le orecchie a Can, Neu!, Kraftwerk, presentandosi a bordo di un treno sferragliante nel buio, il suo buio, che accerchia l’ascoltatore nella title track di dieci minuti (prima dell’avantpop di “Blackstar”, c’era già quello di “Station to Station”) e cantando algido, mimando il nazista Otto Rahn alla ricerca del sacro Graal e il Prospero shakesperiano: “The return of thin White Duke”. Esile, frastornato, facendosi spazio nella materia di cui sono fatti i sogni, dichiarando però che “It's not the side-effects of the cocaine / I'm thinking that it must be love”. Non confondete: ansia e confusione di percorrere fino in fondo questo calvario non è per la cocaina, è solo un effetto collaterale dell’amore. Amore per la musica, per l’arte sui cui è si sente fondato. Altre tappe della via Crucis di Bowie, che scelse per la copertina dell’album un’immagine de “L’uomo che cadde sulla terra”, quando Newton entra in una camera anecoica (ambiente che riduce suoni, simulando una dimensione altra, spaziale), sono il plastic soul di “Golden Years” e l’intimissima invocazione di aiuto di “Word on a wing” per quest’epoca di grande illusione. Poi “Tvc 15”, rock e cabaret, ispirato da uno dei tanti eventi dell’incubo prolungato di L.A., con Iggy Pop convinto di aver visto la propria ragazza inghiottita da un televisore. E prima della chiusura avvolgente, di pace ritrovata con “Wild is the Wind”, ancora un’impennata sul riff cocainizzato di Carlos Alomar in “Stay”. La luce in fondo al tunnel era Berlino, pronto a rinascere sotto ancora un’altra forma.

David Bowie era questo, mentre realizzava un album già guardava al successivo. Purtroppo qui si spezza il filo tra oggi e quarant’anni fa, sfuma l’illusione di eterno presente invadente da annullare per guardare al futuro. David Bowie è morto per davvero il 10 gennaio. L’uomo e l’artista. A differenza di tantissimi altri rimasti in vita per anni, ma morti artisticamente e incapaci di sbalordire e generare attesa. Dopo “★” non ci sarà ritorno, nulla più. Si dispensa da Frankenstein musicali in stile Freddie Mercury e Michael Jackson. A meno che Bowie non abbia predisposto per piani futuri grandi sorprese in stile Salinger.

Intanto in “Dollar Days” di “★”, il più bel brano che potesse lasciarci, canta: “I’m dyin to / Push their backs against the grain / And fool them alla gain and again”.

Da chissà quale galassia muore dalla voglia di continuare a ingannarci.

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