Il 26 novembre 1976, mentre nei negozi britannici arrivava “Anarchy In The U.K.” dei Sex Pistols, in Italia si pensava ad altro. Di quanto stava accadendo a New York e Londra si avvertivano lontanissimi echi grazie agli articoli apparsi su riviste specializzate quali “Ciao 2001” e “Gong”, ma le valutazioni erano viziate da preconcetti: del resto, qui da noi la platea “rock” apprezzava sonorità classiche (ancor meglio se di area progressive) e cantautori impegnati, e il nuovo fenomeno veniva guardato con estrema diffidenza per via dell’approccio rozzo, del look trasgressivo, di qualche svastica che, ostentata come provocazione, faceva pensare a simpatie destrorse. Ammesso e non concesso che esistessero, in quei giorni di “brodo primordiale” le band punk italiane erano comunque confinate nelle cantine, e se qualche “kid” di casa nostra, folgorato da un viaggetto oltremanica, si azzardava a fare una passeggiata vestito in un certo modo, rischiava la pubblica derisione se non addirittura le botte. La situazione iniziò a cambiare nella seconda metà del 1977 grazie a un documentario sul punk inglese trasmesso in TV dalla RAI nell’ambito del programma “Odeon”, ispirazione e chiamata a raccolta per la Blank Generation tricolore. Per molti giovani fu un’autentica epifania, assieme a un 33 giri con brani di vari artisti anglo-americani – "Punk Collection" l’eloquente titolo – fortemente voluto e compilato da Carlo Basile della RCA; al discografico in questione, tra i più lungimiranti ed entusiasti che la Penisola abbia mai avuto, si deve anche la diffusione di molti album-chiave prodotti all’estero, e una capillare, insistente opera di promozione presso la stampa autoctona del punk in senso stretto, dei suoi “padrini” reali o presunti (Lou Reed, Iggy Pop, David Bowie…) e di artisti che, pur non essendo propriamente punk, si muovevano nella sua orbita, impegnandosi in progetti più d’avanguardia. La cosiddetta new wave, insomma, della quale il punk era elemento costitutivo e propulsivo.
Al di là delle affermazioni di tutti coloro che, sapendo di non poter essere smentiti, giurano di aver suonato punk “in incognito” prima di chiunque altro, la storia documentata e quindi inattaccabile dice che il primo disco “punk” italiano è stato il 45 giri datato 1977 ed edito dalla Polydor, dove le meteore Aedi trasfigurano “Fratelli d’Italia”: una cosa nient’affatto “seria”, se vogliamo in piena sintonia con la visione distorta che il nostro Paese aveva del punk, assai ben riassunta dall’Andrea Mingardi Supercircus nel singolo-parodia – molto divertente, peraltro – “Pus”, uscito nella prima metà del 1978. Accanto alle altre farse messe in scena da gente come Gli Incesti (il mini-LP “Ecco…”, sempre del ’78, contiene pure i loro assurdi 45 giri) o Enter ‘O Clisma (due singoli, ancora del 1978, all’insegna di un improbabile “neapolitan punk”), fra la fine del 1977 e il 1978 giunsero sul mercato alcuni LP non privi di soluzioni interessanti, prodotti da major direttamente o tramite marchi-satellite: “Chinese Restaurant” dei Chrisma, il duo fondato a Milano da Maurizio Arcieri (che incideva già nei ‘60, con i New Dada) e Christina Moser; l’omonimo dei bolognesi Judas, guidati da un altro reduce dei Sixties, Giancarlo “Martò” Martelli; “Voices” dei Rancid X di Torino; l’esordio senza titolo dei Decibel di Enrico Ruggeri, la cui incarnazione originaria era parecchio più cattiva di quella sanremese della famosa “Contessa”.
OK, dominavano ingenuità, mistificazioni e tentativi di smussare le asprezze per essere teoricamente appetibili per l’audience generica, ma non si può negare che tali proposte rappresentassero qualcosa di inusuale e in qualche misura “coraggioso” per i nostri lidi. Sebbene non fossero pienamente in linea con gli standard internazionali del genere, quelli che meglio di ogni altro inventarono una formula punk genuinamente italiana furono però gli Skiantos di Bologna: specie nel biennio 1977/1978, quello degli album “Inascoltable” e “Mono/tono” (nonché del singolo “Io sono un autonomo”/“Karabignere blues”), il loro rock’n’roll grezzo e “pestone” – accoppiato a testi in rima che in un sol colpo dileggiavano la tipica canzone melodica e la seriosità della controcultura dei ‘70 – fu la perfetta risposta in chiave italica, ancor di più perché sostanzialmente inconsapevole, alla rivoluzione deflagrata all’ombra del Tower Bridge e dell’Empire State Building.
Fu comunque solo nel 1979 che il Belpaese, accanto ad alcuni altri album confezionati da grandi etichette (“Asylum” degli Elektroshock di Roma, l’omonimo dei Revolver! di Trieste), prese timidamente a sfornare dischi autoprodotti e diffusi con strategie “carbonare”, come il devastante EP diviso fra gli HitlerSS e i Tampax di Pordenone, il 45 giri in tiratura ultralimitata dei non meno feroci Mittageisen di Milano o il singolo “Noncurance” degli Underground Life di Monza. Che quest’ultima band si dedicasse a un sound meno aggressivo e più cupo e decadente, affine a quello sviluppato dall’ottimo Fausto Rossi – al tempo noto come Faust’O – nei suoi vinili per CGD e Ascolto, è l’ennesima conferma di ciò che sempre si è saputo, ovvero che – in Italia – post-punk e punk siano stati in pratica coevi e non l’uno l’evoluzione dell’altro; nel 1980, le uscite della Italian Records e della collana “Rock 80” della Cramps provvedettero, assieme ad altre meno visibili ma non meno importanti, a ribadire il concetto.