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Pinguini Tattici Nucleari: “Il pop è cambiato, schierarsi come Fedez ed Elodie non è più scandaloso”

I Pinguini Tattici Nucleari hanno pubblicato il loro ultimo album Fake News, confermandosi come il fenomeno pop italiano di questi ultimi anni.
A cura di Francesco Raiola
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In pochi anni i Pinguini Tattici Nucleari sono diventati il fenomeno pop italiano più sorprendete, per numeri e per percorso. Nessun talent, un Sanremo in cui erano già protagonisti della scena, palazzetti sold out, stadi sold out in poche ore (Milano, Roma, Torino e Firenze), tutto frutto di una enorme gavetta e della capacità di fidelizzare un pubblico enorme, che è cresciuto man mano negli anni. Nonostante contino nel proprio curriculum molti tormentoni, i Pinguini sono riusciti a non restarne ingabbiati e continuano a vedere i propri album in testa alle classifiche (spesso anche più di uno contemporaneamente). Il loro ultimo album si chiama "Fake news" e porta all'estremo il loro concetto di pop, genere che se in molti cercano di sfuggire ma che loro, invece, paiono surfare felici, prendendosi i meriti di tenerlo sempre alto nelle classifiche. Di gavetta, carriera, musica e Sanremo ne abbiamo parlato con Riccardo Zanotti, voce della band composta anche da Elio Biffi (tastiere), Nicola Buttafuoco (chitarra), Matteo Locati (batteria), Simone Pagani (basso) e Lorenzo Pasini (chitarra).

Come è essere i Pinguini, oggi?

Penso che sia abbastanza semplice. Sono tanti quelli che spesso dicono che è difficile avere successo, avere una carriera da preservare, ed è vero da un certo punto di vista, ma dall'altra parte l'abbiamo sempre cercato e ora arriva anche qualche riconoscimento: gli stadi da una parte e alcuni premi dall'altra ma anche semplicemente l'affetto del pubblico. È molto più semplice di quanto non fosse anni fa, quando ancora eravamo nel bel mezzo della gavetta, si facevano 100-150 concerti in un anno a volte con dieci persone davanti.

Essere popolari è diverso dall’essere pop: quanto è complesso gestire questo passaggio?

Essere pop non crea tanti problemi, essere popolari, invece, è un po' difficile anche perché noi siamo sempre stati quelli reietti. Parlo della carriera scolastica, eravamo bravini a scuola, ma non eravamo quelli più ambiti, quelli di cui tutti volevano essere amici. Poi, con le superiori, qualcuno di noi si è creato la sua nicchia, stavamo insieme a quelli che ascoltavano rock e metal, quindi in qualche modo riuscivamo a superare la giornata. Però essere popolari oggi e vedere che qualcuno ti guarda anche come modello e pensa anche che tu sia figo è molto strano, anche perché ci sentiamo sempre gli stessi, in fondo sono passati solo pochi anni. Non è un caso che nel nuovo album ci siano canzoni come "Non sono cool", per dire alla gente guardate che non siamo cool, non siamo estetica, siamo soltanto persone che stanno vivendo un sogno.

Fake News è pop pinguino all’ennesima potenza, ormai avete uno stile completamente vostro. Quanta fatica c’è voluto per costruirlo e rendervi credibili e forti in un mondo discografico difficile e spesso spietato nei giudizi?

Io lo definirei uno stile ostile, prendendola in prestito da non ricordo chi. Non è per vantarsi o per boria, però noi facciamo le cose in modo un po' old style, per quanto siamo ragazzi tutti sotto la trentina ci piace pensare alle varie storie delle grandi band e cerchiamo di imitarli. Pensiamo ai Beatles, ai Queen, a tutti questi dei, perché la musica per noi è più una religione e la messa è stare in studio e in sala prove. Quando ti dimentichi quella cosa lì secondo me inizia il declino, perché il lavoro vero di un musicista deve essere a costruire le sue trame sartoriali in sala prove e in studio di registrazione. Noi lo facciamo sempre e penso che dalla musica si possa evincere, perché c'è un'attenzione al minimo dettaglio, all'orpello, alla stupidaggine che tanti altri bypassano – e forse fanno anche bene – che noi non vogliamo lasciare indietro. Anche solo il fatto di essere una band di sei elementi in cui tutti suonano uno strumento diverso crea un equilibrio dinamico.

Ovvero?

Nella band tutti combattono perché il proprio strumento si senta di più e alla fine ci sia un mix di tutto. Insomma, essere una band è molto importante, è molto bello anche se ci si può mettere più tempo a fare le cose. Io penso che il nostro stile derivi un po' dall'essere band e un po' anche dal fatto che questa infinita gavetta che abbiamo fatto per cercare di farci notare si senta in ogni frase. Siamo sempre stati quelli un po' esclusi, ai margini, che ora in qualche modo comunicano a un'ampia platea di gente che si sente allo stesso modo e quindi si riconosce in noi. Nella musica cerchiamo di fare questo, di dire: non vi abbiamo abbandonato.

Insomma, com'è essere una band in questo mercato?

È semplice per noi, ma non è semplice essere una band nel circuito discografico mainstream italiano, perché la maggior parte degli artisti decide di intraprendere un'altra strada, quella solista. Noi pensiamo però che la musica abbia una funzione importante dal punto di vista del gruppo, del creare un insieme, una collettività. L'abbiamo sempre vissuta così perché nasciamo nelle sale prove e le sale prove, spesso, non contengono all'interno soltanto una persona ma sono fatte proprio per essere vissute in modo collettivo. Dall'altra parte può essere difficile perché spesso è difficile mettere insieme sei anime diverse, sei concezioni diverse della vita, della realtà, della politica, del mondo sociale.

Facci un esempio.

L'esempio è "Fede", in un pezzo come quello, in cui si affrontano temi importantissimi che riguardano la fede – non solo la fede nella religione, in un Dio, ma quella nelle istituzioni,  nell'evoluzione, nella scienza e anche nella musica -, è difficile, perché magari ciascuno di noi ha idee diverse: abbiamo cercato di metterci tutti e sei e di parlare di fede come concetto assoluto, cioè in qualcosa si deve credere. Noi non abbiamo fede nella religione, in un Dio superiore però abbiamo la fede nella musica, nel nostro mestiere, pensiamo che la musica debba unire le persone e lo dimostriamo ogni giorno, soprattutto essendo una band.

In un mondo in cui si parla molto di abbattere i generi voi mi sembrate tra quelli che più amano il genere pop con cui sono descritti.

Questa questione è un po' come la politica: preferisci avere un partitino, magari anche sotto la soglia di sbarramento, e andare avanti con le tue idee, anche radicali, per tutta la vita, ma avere quel bacino elettorale? Oppure creare anche una coalizione più ampia, ma con all'interno tante idee diverse e tante correnti diverse? Ecco, noi a un certo punto ci siamo detti: proviamo ad avere dentro di noi quanta più gente possibile e questa cosa ti permette magari di fare cambiare idea a qualcuno. Quando fai pop arrivi di più da una parte, il tuo linguaggio è più codificabile. Ovviamente devi mantenere più layer, perché c'è chi vuole entrare di più a fondo nelle canzoni, e chi invece non interessa niente. Penso anche alle persone che hanno un ascolto più immediato, che ascoltano la radio per passare la giornata, perché vogliono un po' di compagnia: magari con qualche frase messa nel punto giusto riesci a cambiare qualcosa nel mondo, che non significa cambiare la società, ma anche solo raccontando la storia di una persona omosessuale, come abbiamo fatto in passato, riesci a fare capire quale può essere ogni tanto la difficoltà per queste persone nella vita e far provare un po' di empatia a persone che altrimenti non sarebbero mai andrebbero avanti, convinte della loro idea. Questa cosa di cercare di far cambiare idea su certe cose della vita alle persone e portare quella che è la tua testimonianza è quasi una droga, dopo un po'. Quindi il pop deve servire anche a questo: non a cambiare il mondo, ma magari a cambiare qualche piccola cosa nel mondo di qualcuno.

Qualche giorno fa, in un'intervista, Fedez citava voi come esempio di pop e impegno, parlando di Ricordi e del messaggio sull'Alzheimer. Io ci pensavo per "Cena di classe" in cui raccontate della professoressa trans Cloe Bianco: voi cosa ne pensate?

Hai citato l'esempio più esemplificativo dell'album, nel senso che quella della professoressa Bianco, che a un certo punto ha deciso di togliersi la vita proprio per problemi che per qualcuno sono problemi di tutti i giorni, è una storia tragica. Pensare di parlare a persone che questi problemi non li vive, che non guarda mai dalla parte delle persone che hanno bisogno e che vivono una situazione anche tragica è un qualcosa che vogliamo portare avanti, perché veniamo da una realtà che è quella dei paesini della provincia, dove a differenza di Milano o a Roma, questi messaggi stentano a essere veicolate. Anche per questo ogni tanto ci sentiamo di farci portavoce di qualche storia come quella della professoressa. Dall'altra parte devo anche dire che Fedez, secondo me, che può anche essere criticato da tanti, è una persona che un po' questa cosa la porta avanti. Certo, in modalità diverse: lui è uno che poi si schiera sempre su un sacco di temi, è molto impulsivo, però dall'altra parte ha il coraggio di prendere delle posizioni. Certo, non è che tutti devono prendere posizione su tutto, perché non facciamo i politici, non facciamo i sociologi e gli antropologi, facciamo i musicisti, però su certi temi che ci stanno a cuore dobbiamo avere il coraggio di prendere una posizione, perché la musica pop è cambiata. Quindici anni fa nessuno si scandalizzava se un artista pop non si schierava, però oggi pensiamo ad artiste come Elodie, Ariete, lo stesso Fedez, ovvero persone che hanno il coraggio di dire la loro su determinati temi. Penso sia una cosa buona e anche noi quando riusciamo lo facciamo.

Esiste un rituale di fiducia col vostro pubblico che è lo stage diving, diventato anche una canzone. Un gesto che presuppone enorme fiducia nel pubblico…

Sì, ruota tutto attorno al tema della fiducia verso il tuo pubblico. Quello è un esempio lampante di come puoi dire con un gesto: "Io mi fido delle persone che sono venute a vedermi" perché se decidi di salire su una transenna e buttarti, devi sapere che ti prenderanno altrimenti ti puoi spaccare il collo. Con il nostro pubblico abbiamo sempre avuto un rapporto bellissimo, di completa fiducia e quello è un rituale che si ripropone quasi a ogni concerto, proprio perché è una sorta di simbolo: noi esistiamo solo finché loro ci tengono su. È un rito importantissimo, i nostri concerti di fatto sono riti dopo riti, dopo riti. Lo spirito non è così diverso rispetto ai tempi in cui suonavamo davanti a 10-15 persone. Certo, non sentivamo la gente cantare le canzoni, adesso ci sono molte più cose che avvengono da parte del pubblico, perché è molto ricettivo, basta dirgli di alzare le mani e lo fanno. All'inizio della carriera se dicevamo: "Alzate le mani", loro ti guardavano con la birra in mano. Però dall'altra parte è bello pensare che tante delle migliaia di persone che vengono a vederci oggi, sono rimaste da quei tempi lì. Il nostro vero pubblico, e questo non me lo toglierà mai nessuno come idea, ce lo siamo creato in quel momento lì, nei localini, nei pubbettini e nei festivalini e quindi semplicemente abbiamo raccolto tante persone che ancora oggi ci seguono.

Chissà se negli stadi potrai ancora fare stage diving…

In qualche modo trovi il modo di farlo, penso ai Twenty One Pilots, per esempio, che riescono a fare a loro modo uno stage diving addirittura con la batteria. Stiamo cercando di capire nell'architettura del live se sarà possibile avere un momento del genere: io penso di sì, magari con qualche accortezza in più, però noi vorremmo mantenere tutto. La storia è quella di una band che parte dal piccolo e arriva al grande, ma ci devono essere delle cose che conserviamo, quindi ci proveremo in tutti i modi.

I testi dei Pinguini sono macchine perfette come incastri, giochi di parole, reference più o meno nascoste. Quanto ci lavori?

Ci sono determinate canzoni, come Ricordi, che nascono di getto dopo aver letto un articolo di giornale. Leggendo un articolo, in quel caso su un farmaco che sembra poter aiutare i pazienti che soffrono di Alzheimer, in un impeto di positività mi sono detto: "Voglio scriverci una canzone" e l'ho fatto in pochissimo tempo. Dall'altra parte ci sono pezzi come "L'ultima volta" che invece possono essere scritti anche in un anno e mezzo, vale soprattutto per quelle canzoni in cui ci sono tante immagini e spesso quelle immagini sono cose che mi appunto in tram, sull'autobus, ovunque. Le cose, per poter essere scritte in una canzone, devono avvenire e la maggior parte, per quanto riguarda quest'album, sono anche esperienze vere, poi è chiaro che diventano finte nel momento in cui le metti in una canzone: l'arte, per definizione, deve essere anche finzione, perché è messa in scena o in musica. Sono tutti appunti che mi segno sul cellulare, su dei foglietti, su degli scontrini qualche volta e poi ci può volere anche un anno, un anno e mezzo, alcune addirittura due anni per essere completate.

Spesso nelle canzoni scherzi sulla questione solista: quanto ti piace la provocazione nelle vostre canzoni?

Sì, la provocazione è parte integrante della musica. Noi lo facciamo sempre in modo non particolarmente malizioso, perché non lo siamo, però abbiamo un grande amore per il calembour, per il gioco di parole, per tutte queste cose quasi enigmistiche. Nei pezzi ci piace provocare, perché provocando provochi anche una reazione dall'altra parte. La cosa peggiore è pensare che una persona possa ascoltare una canzone senza che questa lasci niente. Con la provocazione, invece, spesso qualcosa la lasci, poi può essere anche antipatia, talvolta, o simpatia, si spera, ma il discorso è che devi uscire dalla comfort zone, altrimenti staremo sempre tutti a parlare di una bella storia d'amore in cui tu porti fiori, poi si va in vacanza insieme e poi a una certa speri di fare dei figli. Ok, però quella è più quasi una storiella che racconta la politica, la musica invece deve raccontare anche cose un po' più provocatorie, altrimenti non è interessante.

C'è una canzone del passato che avresti aggiunto a quest'album?

Penso che Lake Washington Boulevard sia una canzone che ha avuto un po' di sfiga nella nostra produzione, e me ne rendo conto ai concerti: ogni volta che la suoniamo la gente la canta come se non ci fosse un domani e noi non abbiamo avuto l'intelligenza, in quel periodo, di capire che aveva un grande potenziale. Non l'abbiamo scelta come singolo perché pensavamo suonasse troppo retrò, ci sono dei fiati, c'è un'anima molto folk di cui al tempo non dico che ci vergognavamo, ma non volevamo portarla troppo davanti, non volevamo che fosse il nostro stendardo. Volevamo essere un po' più moderni, invece adesso abbiamo abbracciato pienamente tutte le nostre anima e quella folk c'è: adoriamo i Mumford & Sons, i Lumineers, nomi del genere e quindi quella secondo me sarebbe potuta essere un ottimo singolo, quella canzone è quasi un rimpianto. Tutti i musicisti secondo me hanno rimpianti quando si tratta di singoli, io sono convintissimo di questa cosa.

L'altro giorno parlavo di voi coi Verdena, con cui siete vicini di casa…

Pensa che mia mamma era la loro maestra.

Ora che sei un fratello maggiore del Pop italiano, che rapporto hai con quella scena con cui sei cresciuto?

Ho un rapporto molto bello. Io sono cresciuto con Marlene Kuntz, Verdena, Afterhours, adoravo i Marta sui Tubi, tutta quella scena, ho un rapporto anche personale con Luca dei Verdena, non tenderei a definirci amici, ma ci conosciamo e ci stimiamo, ho perso molte partite a calcetto contro di lui. C'era questo locale ad Albino che si chiamava Ta, Sì che ha fatto parte della mia giovinezza: si andava a vedere band per lo più punk, qualcosa metal e anche rock, ma praticamente non esisteva il pop, per tanti anni il pop è stato il mio guilty pleasure, quando ascoltavo Katy Perry non dovevo farmi vedere con il mio mp3. Quello è stato un locale in cui tanti musicisti della bergamasca passavano, ogni tanto, e c'erano anche loro che erano visti come gli dei, perché è molto complesso per gente delle nostre parti riuscire a sfondare nel mondo della musica e loro ce l'avevano fatta. Io sono contento di rappresentare, in un altro mondo, che è quello della musica più pop, un esempio per gente delle mie parti. Insomma, quando mi parli di Verdena mi stai parlando di gente quasi intoccabile per quanto mi riguarda. È chiaro che facciamo qualcosa di molto diverso e quindi si viene un po' da mondi quasi agli antipodi, però c'è una stima molto grande.

E adesso il capitolo Sanremo: eravate tra i papabili, quasi sicuri, poi alla fine il vostro nome non è uscito. Ci racconti che è successo?

Ma mi si consenta di dire che ogni anno, giustamente e lo posso capire da un punto di vista giornalistico, ci sono queste fantomatiche liste di papabili: su tante cose si azzecca, su altrettante no, avendo tanti amici e leggendo molte di queste liste, capita di chiedere a colleghi se siano vere e mi dicono "No, ma guarda, noi non abbiamo intenzione di fare nulla". Ecco, questo è un po' il nostro caso, perché noi siamo estremamente grati per quello che fa Amadeus, che tra l'altro sa tenere molto bene i segreti, ci sono sempre delle sorprese. Fondamentalmente non avevamo intenzione di farlo perché avendo gli stadi, questo album e tantissimi impegni, mettersi dentro Sanremo, che è una vetrina incredibile ma significa anche tanto impegno, tanto allenamento e tanto status mentale, era un po' troppo per noi, quindi non ci abbiamo pensato. Poi è chiaro che adoriamo Sanremo e ci vediamo bene in quel contesto, ma quest'anno non abbiamo voluto prendere parte, non abbiamo neanche richiesto di essere parte di quella cosa, anche perché, voglio dire, non serviamo di certo noi a Sanremo con i nomi soprattutto che ci sono stati.

Insomma, non avete mandato canzoni.

Ti dico onestamente, certo che ogni tanto mandiamo canzoni, ma senza l'obiettivo di pensare a Sanremo. È chiaro che con Amadeus, che ha fatto parte del nostro percorso e ci ha insomma permesso nel 2020 di fare un bello step, ogni tanto ci sentiamo, ci parliamo, ci vediamo. So che sembra assurdo, ma non c'è mai la malizia anche perché poi sai, Sanremo è una roba gigantesca, quindi tendi un po' a non parlarne, a non pensarci, perché è un qualcosa che può decidere le sorti di una carriera, di un artista in positivo o in negativo se vai con un pezzo sbagliato o fai male. Quindi certamente c'è un confronto quotidiano, ma non abbiamo mai mai parlato di Sanremo, questo non esclude che lo faremo nei prossimi anni.

(Con la collaborazione di Vincenzo Nasto)

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