Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Ragazza sola di Annalisa
Il tempo è una variabile alla quale diamo poco conto: è una dimensione a tutti gli effetti, come le altre tre, ma ci prestiamo attenzione solo quando guardiamo indietro, e raramente mentre ci siamo dentro. Lo stesso si può dire nella musica pop: siamo talmente abituati a quei quattro battiti regolari che racchiudono ciascuna cellula di significato, praticamente in ogni canzone, da non accorgerci delle rare eccezioni. Ma in una tradizione formulare come il pop ogni minuscola differenza produce un effetto enorme che chiunque può sentire, anche senza conoscere la teoria.
Prendiamo ad esempio Ragazza sola, l’ultimo singolo pubblicato da Annalisa prima dell’uscita, il 22 settembre, dell’album E poi siamo finiti nel vortice: prima ancora che la cantante pronunci le prime parole, le note arpeggiate dal pianoforte ci dettano un ritmo, zum-pa-pa zum-pa-pa zum-pa-pa zum-pa-pa. No, non è un valzer: il valzer si balla, può anche essere elegante, ma è sempre energico; gli assegniamo una serie di numeri (3/4) per ricordarci che ogni tre battiti bisogna dare uno strattone di qua e cambiare direzione, per poter disegnare splendidi cerchi nei nostri immaginari saloni viennesi. In Ragazza sola, però, non si balla: alla peggio si dondola, e lo si fa da soli, apparentemente in un enorme stanzone vuoto, se vogliamo dare retta al riverbero del pianoforte; a questo tipo di ritmo, composto da quattro unità a loro volta divise in tre, diamo il nome di shuffle, parola inglese che in questo contesto significa “trascinare i piedi”, e gli assegniamo un’altra serie di numeri (12/8).
Non c’è bisogno di conoscere l’aritmetica musicale per capire in quale stato d’animo vogliano immergerci Annalisa e i suoi due coautori, Alessandro Raina e Davide Simonetta (quest’ultimo anche produttore del brano). Se consideriamo il contesto, tutto è ancora più chiaro: la protagonista è una “ragazza sola”, probabilmente la stessa “bellissima” che tre minuti prima rifletteva sulla volatilità dell’amore, che ti può esaltare ma prima o poi ti lascia a piedi per strada. Se prima, però, c’era ancora sufficiente energia per domandare a gran voce “dove vai?”, ora ci si sente un po’ spenti e si chiede sommessamente “non sparire”: stessa intenzione, ben altro risultato.
Trasciniamo anche noi i piedi, mentre la melodia cincischia intorno a un Fa; finché una singola nota non ci trafigge il cuore: “è una cosa che si impara”. Questa “cosa”, nello specifico, è un inusuale Re bemolle: Annalisa ci sale in groppa tradendo l’ordine costituito dell’armonia, per far calare da maggiore a minore l’accordo di Si bemolle settima, aggiungendo amarezza alla nostalgia. Questo tipo di sostituzione di accordi “paralleli” non è una rarità assoluta e si usa con una funzione che, di nuovo, risulta immediata a chiunque, se ascolta con attenzione: quella scintilla che ancora si avverte in “chiama, chiama, chiama”, infatti, si spegne all’improvviso, lasciando in bocca un sapore spiacevole, come di un tè lasciato infondere troppo a lungo. Caso vuole che un altro esempio di questa sostituzione armonica, e precisamente nello stesso tipo di accordo (per i secchioni a casa, di quarto grado o “sottodominante”), si verifichi in un’altra celeberrima canzone “persa nel vortice”, cioè Space Oddity di David Bowie. La coincidenza davvero stupefacente è che Bowie aveva pubblicato una versione italiana (con testo di Mogol) di quella sua celebre hit. Il titolo? Ragazzo solo, ragazza sola.
Non è una coincidenza, invece, che questa canzone sia rimasta aggrappata alle orecchie di molti italiani. Prima di tutto, perché non tradisce le premesse del percorso segnato da Annalisa con Bellissima e Mon Amour, e seguito da milioni per le ragioni che abbiamo già discusso: certo, questa traccia è più lenta, ma basta che il mulinare del pianoforte venga rimpiazzato dai sintetizzatori nel giro di appena 22 secondi, perché ci si ritrovi nel medesimo solco synth-pop e dance-pop anni ‘80, era che rispolverò proprio lo shuffle grazie all’intesa tra arpeggiatori e drum machine. La cadenza ritmica di questo brano, peraltro, è un marchio di fabbrica di Annalisa: dall’accumulazione di rime sdrucciole in Dieci alle terzine di Mon Amour, le serie di tre sillabe popolano la sua musica. E così, quando la cantante ribadisce prima del ritornello “ultima, ultima” e “unica, unica” stra intrecciando il suo stile di canto al tempo di shuffle. L’ascoltatore riceve, insomma, quello che più di ogni cosa sembra gradire: un’altra porzione del piatto appena consumato.
Per evitare il senso di sazietà, Simonetta produce allora in modo decisamente diverso rispetto alla frizzantezza di Bellissima, avvicinandosi piuttosto all’atmosfera eterea e nebulosa di Tango di Tananai (sempre opera sua). L’aria funerea si addice all’atmosfera grave del brano, ma d’altro canto una popstar sa che non si esagera mai con il melodramma. La soluzione più pratica per tirarci su di morale è costringerci a cantare il ritornello. Così, sotto una cassa dritta che ormai non si tiene più, arriva una melodia che accende i motori e parte in orbita: “sooola! sooola!”. La tecnica in uso, qui, è quella che si definiva millennial whoop, una successione di note del terzo e quinto grado intonate in glissando e crescendo, cioè facendo “scivolare” le note e aumentando il volume. Negli anni Dieci non potevamo fare a meno di questi “uo ah” (le stesse vocali di “sola”, se ci si fa caso), che ci capitava di sentire ovunque, dagli Arcade Fire ai twenty one pilots, dai grandi successi di Katy Perry (California Gurls, un disco di platino in Italia) a quelli dei Lumineers (Ho Hey, tre dischi di platino). La storia prova che a questa sirena (nel senso dell’essere mitologico, ma anche dell’apparecchio in cima alle ambulanze) è difficilissimo resistere.
Dopo questo colpo di frusta, allora, siamo pronti ad accettare che il ritornello si chiuda con una risoluzione, armonica ma anche emotiva: “Forse non mi sento più sola”. L’ascoltatore sa che questa Annalisa non è la stessa di un minuto fa, che schiarire le corde vocali ha aiutato lei e anche noi: mentre tutto intorno quello spazio vuoto dove trascinavamo i piedi si è riempito di tastiere e batterie, ci riscopriamo trasformati. La seconda strofa potrà pure elencare le ragioni del rimpianto, ma ormai abbiamo visto la proverbiale luce in fondo al tunnel: il basso e il beat non ci mollano più, quella mesta danza è diventata una marcia – e senza bisogno di perdere un colpo, grazie alle magie aritmetiche del 12/8, che incastra il dondolio del tre nella cassa dritta. La riscossa è compiuta sul finale, quando ci ritroviamo di nuovo faccia a faccia con l’arpeggio iniziale, ma da persone diverse: non lo suona un pianoforte solitario, ma quello stesso sintetizzatore che ci ha accompagnato in questa “space oddity” sentimentale. E anche noi, dall’altra parte delle cuffie, non siamo più soli.