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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa 2 minuti di Calcutta

Si chiama 2 minuti una delle canzoni più ascoltate dell’ultimo album di Calcutta, Relax. Vi spieghiamo perché è uno dei brani che piacciono maggiormente tra quelli dell’album del cantautore.
A cura di Federico Pucci
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Calcutta (ph Angelica Schiatti)
Calcutta (ph Angelica Schiatti)

Un tormentone non è tale solo se arriva al primo posto: la sua musica e le sue parole devono infiltrarsi nella coscienza collettiva come un meme, una moneta di scambio della comunicazione (online e offline). Uno dei tormentoni più efficaci del decennio appena passato, in questo senso, è stata una canzone ben più forte di molte delle 66 colleghe uscite nel suo anno che hanno ottenuto più ascolti: sto parlando di Paracetamolo di Calcutta; o “la Tachipirina 500”, come sarà ricordata nei canzonieri folk del prossimo secolo. Ed è proprio quella punchline lirica e melodica a renderla un tormentone, non i due dischi di platino, che fanno senz’altro piacere. Allora, nel lontano 2018, l’aforisma di Calcutta era incatenato a una scala discendente: il suono di una grande rivelazione (“lo sai che”) che si ripiega su sé stessa, fino a rivelarsi quasi una boutade, anche se non c’è nulla da scherzare – il senso dell’umorismo, si sa, è un meccanismo di difesa. Se volessimo cercare un erede di quel brano nel nuovo album Relax, uscito venerdì 20 ottobre, sarebbe 2 minuti: non solo per il giudizio insindacabile degli ascoltatori che l’ha incoronata già come hit, ma perché con un movimento simile ma opposto descrive la stessa sensazione di un “cuore a mille”.

L’inizio è in sordina, con una drum machine che si fa avanti in punta di piedi, con un beat simile alla batteria di Cosa mi manchi a fare e un suono colloso da Roland TR-606 (ma non importa). Nel giro di nemmeno trenta secondi entra una batteria in crescendo ad annunciare il ritornello: arrangiamento elettronico e rock si danno un cinque, come due wrestler in un match tag team. Le due anime si intravedono nel team produttivo: oltre ad Andrea Suriani e lo stesso Calcutta, troviamo da un lato Myd, figura a cavallo tra pop retromaniaco e french house (nostalgia al quadrato, insomma) con un debole per i paradossi, i synth vintage e i berretti che potrebbero farlo considerare un Calcutta d’oltralpe (ma non lo diremo, nonostante canzoni come Moving Men); dall’altro lato Giorgio Poi, voce, chitarra e mente di alcuni dei momenti più rilevanti, ipnotici e catchy dell’ultimo decennio indie italiano. Quattro talenti che riescono a creare sintonia timbrica tra le due anime strumentali e farci concentrare solo sul crescendo, che prepara il momento più importante.

L’hook, quell’elemento che si intarla nel cervello a tua insaputa, arriva proprio all’inizio del ritornello. È una melodia che si muove in direzione contraria rispetto a Paracetamolo, e con effetti molto differenti – ma risultati paragonabili, solo il tempo le certificazioni FIMI ce lo diranno. “Come un lampo sopra la città” canta Calcutta, in una prima fiammata verso l’alto, che si avvera pienamente un verso dopo (“Io ho accelerato il passo per andare via, il mio cuore è nel panico”): uno per uno, due passi per ogni scalino, l’artista ci accompagna per mano nel suo crepacuore lungo tutti i gradi della scala maggiore di La♭. E mentre si arrampica, l’artista ci fa sentire lo sforzo, ben consapevole della lezione di Battisti sulle note più alte: emozione e significato prima della pulizia tecnica.

Di emozioni, in effetti, ne arrivano a bizzeffe: il refrain descrive la sensazione schiacciante di un attacco di panico alla visione improvvisa di una persona, la successione ingovernabile di inquietudini, una dopo l’altra, sommate in una cacofonia di nostalgia, ansia, terrore, desiderio, rimpianto – come se il pianista della nostra psiche avesse dimenticato di alzare la scarpa dal pedale di risonanza. Paragone non casuale, perché inserire un’intera scala in una canzone espone l’orecchio alla somma densissima di consonanze e dissonanze, incolonnate una sopra l’altra: un muro di suono che alla fine del ritornello crollerà su sé stesso.

Del resto, usare interi segmenti di scale in una melodia non è la pratica più comune del songwriting: proporre all’orecchio tutte queste informazioni significa accumulare una tensione che richiede un rilascio altrettanto importante. Un esempio celebre di melodia che ricalca la scala maggiore è il pre-ritornello della canzone del 1982 dei Dexys Midnight Runners Come On Eileen, un hook talmente potente da aver dato il titolo all’intero album (Too-Rye-Ay). Nel caso del gruppo di Birmingham, dopo la scala arriva un salto mortale di tempo, ritmo e tonalità, reso agile proprio dall’energia accumulata nella scala: Calcutta sceglie una risoluzione più semplice e classica, ma non ci arriva subito, e sta tutto scritto negli accordi.

Passati il primo slancio e un punto esclamativo di chitarra elettrica, fluttuiamo tra Do minore e Fa minore, in un limbo di due battute (“da sola nel traffico”). Solo dopo questa sosta arriva l’ambito passaggio a Si♭ minore e Mi♭ settima (secondo grado e dominante, per chi prende appunti) che ci proietta a razzo sull’accordo di partenza, rivelando che forse la voce narrante si era soltanto confusa (“ma magari non eri neanche te”): il ritardo non è un caso, serve per farci assaporare la malinconia dell’esperienza, che resta tale, perché nella vita di un ansioso non c’è differenza tra incontrare una persona che manda in agitazione o credere di averlo fatto.

Per capire la forza del movimento che chiude il giro del ritornello – e quindi l’efficacia del ritardo – non servono lezioni di teoria: basta pensare a una canzone lanciata sulla stessa autostrada armonica, ma senza soste all’Autogrill. Mi riferisco a Don’t Stop Me Now dei Queen, che qualche anno fa lo psicologo cognitivo Jacob Jolij aveva nominato canzone più allegra, carica e soddisfacente della storia, in uno studio commissionato dal brand britannico di elettronica Alba: la sua efficacia, apparentemente, risiedeva proprio nell’equilibrio del suo giro di accordi. 2minuti, invece, poggia la mano su un piatto della bilancia, esitando sul malessere e facendoci assaporare l’amaro così da far sembrare ancora più dolce, per contrasto, la conclusione del suo ragionamento: sono stato male, ma forse era solo una che ti somigliava. Di nuovo, l’umorismo come difesa nonché, probabilmente, un’altra futura catchphrase per i fan calcuttiani.

Come pop comanda, 2minuti si ripete per ribadire il messaggio. Nella seconda strofa il canto, però, si scioglie, azzarda quasi un falsetto e glissa all’ingiù (“ma ormai è troppo tardi e ho paura di dirtelo oh oh oh oh”), che in questo contesto pare soprattutto una rincorsa per aumentare l’aspettativa e l’efficacia del nuovo refrain, come una macchinina a retrocarica. In una brano fatto tutto di soste e partenze, c’è anche una vera pausa. Mentre il synth basso pulsa e rallenta, dal fondo sentiamo un crescendo di suoni elettronici ascendenti: sembra la salita infinita e frustrante dell’illusoria scala Shepard, o l’ascesa caotica di archi che divide in due A Day In The Life dei Beatles. Un omaggio, o solo il modo più efficace di far partire un altro ritornello? La risposta non possiamo darla sulla carta: potremo dirlo solo sentendo i cori del pubblico, nei palazzetti che tra novembre e dicembre ospiteranno il cantautore di Latina.

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