Perché il rap a Roma è diverso? È la “Sindrome della periferia”
Perché la chiamano urban music? Oggi che il rap è diffuso anche tra le celebri casalinghe di Voghera, la questione può apparire superflua. Eppure, basando le proprie ritmiche e armonie sul concetto di ripetitività ciclica e l’attitudine al microfono sull’originalità contrapposta all’anonimato, l’hip hop non sarebbe potuto nascere, forse, in contesti non metropolitani. E infatti così è stato. E se, in Italia, Bologna è un caso a parte, culla, oltre che di questo genere, di tutte le avanguardie musicali, cinematografiche, teatrali, grafiche e accademiche dei decenni compresi tra gli anni 70 e gli anni zero, è facile fare una mappa delle città chiave che hanno permesso il sorgere di vere e proprie scuole hip hop anche qui, seguendo i binari.
Torino, Milano, Napoli e Roma in testa, quindi. Oggi, per via di una consuetudine economica datata, dato che le grosse etichette discografiche stanno tutte lì, i rapper sembrano gli operai che dal dopoguerra in poi prendevano la valigia di cartone e partivano verso le fabbriche del nord. Piotta ci ha inciso addirittura un pezzo su questa faccenda. Ma, se Mia Martini, Reanto Zero e la Bertè partivano in autostop verso il capoluogo meneghino, sperando di firmare un contratto e tornare nella Capitale vittoriosi, la sonata è cambiata parecchio. I rapper romani restano per i fatti loro. Si limitano, come canta Davide dei CorVeleno, a fare semmai i “turisti in corso Como”. Orgoglio dovuto ancora alla centralità millenaria della città eterna? Potrebbe anche darsi. Eppure, sempre riacciuffando il concetto di urban style, la questione assume altre sfaccettature.
La prima è socio-architettonica. A Roma vige il culto della periferia. Magari proprio per contrapporsi alla centralità millenaria di cui sopra. Fatto sta che se, agli albori del fenomeno hip hop romano, lo spot preferito per i breaker era la galleria Colonna, di fronte al Parlamento, l’attuale galleria Alberto Sordi. Poco più in là, piazzale Flaminio, era il punto di ritrovo di tutta la scena. Una scena composta da borgatari e figli di ambasciatori, vu cumprà e giovani nati da famiglie alto-borghesi. L’unico codice era ed è ancora quello della strada (Guru r.i.p.). Cambiano i luoghi ma non certe consuetudini. Oggi, fuori da quella bomboniera per turisti, politici, commesse, colletti bianchi, manifestanti e forze dell’ordine che è il centro, sono le periferie ad essere la nuova culla delle rime e dei beat. Lo si evince dai testi. Dall’impegno per descrivere la crudeltà del mondo. Dal dissenso manifesto. Dall’invincibile attaccamento all’asfalto e alle sue vittime, che siano bianche o nere, vive o morte.
A Roma l’hip è musica urban. Ed anche i giovanissimi che si affacciano al beat-making, quelli citati nell’articolo intitolato “I talebani dell’hip hop”, non si sognerebbero mai di frequentare le discoteche e le feste alla moda. È un legato importante. Può trascendere il purismo musicale ma non quello ideologico. Danno, il re incontrastato dei rapper romani, non ha dubbi: “Siamo grandi e maturi per le major che hanno bisogno di ragazzetti da vestire e pettinare”. Quindi Milano fottiti, si potrebbe aggiungere, attingendo dalla Curva Sud e perpetuando il gioco delle contrapposizioni. Non è così però. A parte il caso isolato di Achille Lauro, rapper, appunto giovanissimo, tenuto a battesimo da una crew lombarda, la situazione è più radicata in un concetto di identità sociologica che in volgari schieramenti. Se il centro del mercato è su, loro restano giù. Se la città è al centro, loro restano in periferia. Anzi scappano in periferia. Danno, piuttosto che Noyz Narcos sono nati in quartieri affatto popolari, di fianco ai celebrati e nobili Parioli, eppure da lì sono fuggiti, socialmente, musicalmente, eticamente e spesso anche a livello do stanziamento toponomastico. Tutto questo ha un nome: la sindrome della periferia. La stessa sindrome che porta gli studenti fuorisede a non cercare casa dentro le mura, preferendo sborsare la stessa cifra esosa per appartamenti fatiscenti in Piazza Bologna. Ma riguardo al rap non c’entra l’estraneità. Si potrebbe pensare ad una purificazione dal lusso, un po’ francescana. Oppure ad una avversione ai palazzi del potere che tramuta la diffidenza in differenza. Si potrebbe. Ma le canzoni parlano, e soprattutto il rap. Basta ascoltare il suono della strada. Il resto è Comune.