Oggi Paolo Conte compie ottant’anni, e c’è di che far festa. Un festeggiamento gioioso ma all'insegna di una sostanziale sobrietà, poiché lui maltollererebbe “trenini” e ubriachezza più o meno molesta. La classe è classe e l’intera sua lunga e gloriosa carriera, costellata di premi, onorificenze istituzionali (non solo in Italia: la sua fama ha valicato le Alpi e si è estesa all'Europa) e lauree “honoris causa”, lo dimostra in modo inequivocabile, con un approccio che oltre allo swing ama i tocchi in punta di dita e i sussurri, ma ostenta incisività e autorevolezza. Nulla di davvero nazionalpopolare, nel percorso discografico del Maestro astigiano, nemmeno in quei brani – non pochi, a ben vedere – scolpiti nel songbook della miglior canzone d’autore, nelle sue interpretazioni e non solo: si pensi a “Onda su onda”, “Genova per noi”, “Bartali”, “Un gelato al limon” o “Via con me”, appartenenti al repertorio pubblicato fra il 1974 e il 1981, quando il Nostro faticava a imporsi in prima persona ma era da tempo assai stimato come songwriter conto terzi. Non tutti lo ricordano, ma in parallelo all'attività come jazzista (avviata già nei ’50: accanto al suo strumento principale, il pianoforte, suonava trombone e vibrafono), nei Sixties Conte aveva firmato – tra le tante – le musiche di “Azzurro” di Adriano Celentano e, a quattro mani con Michele Virani, quelle de “La coppia più bella del mondo” (ancora Celentano, con Claudia Mori) e “Insieme a te non ci sto più” (Caterina Caselli). È sempre stato in sintonia con il mondo delle sette note, l’artista astigiano, anche quando lo frequentava part-time perché impegnato a dare un senso professionale ai suoi studi di Giurisprudenza.
Da quel 1974 in cui, spinto dall’indimenticato produttore e talent scout Italo “Lilli” Greco, decise di abbandonare la toga per consacrarsi ai tasti bianconeri e al microfono, Paolo Conte ha realizzato quindici album di canzoni inedite, più una mezza dozzina di live, un paio di antologie con rivisitazioni dal suo catalogo e qualche altra curiosità (come l’ultimo e ancor recente “Amazing Game”, in massima parte strumentale, che oscilla fra jazz, cameristica e world). Materiale di elevata caratura musicale e testuale, per intensità e per forza emotiva, che spazia da soluzioni vivaci e trascinanti – sebbene con misura – a trame tenui e avvolgenti da club nelle ore piccole, tutto giocato su un intrigante, fascinoso intreccio di malinconie, ironia e aromi di terre vicine e lontane. È facile perdersi, nella sua poetica fantasiosa fino all'imprevedibile, nelle sue atmosfere altamente evocative, persino nella sua voce che compensa con una straordinaria espressività i suoi toni a volte un po’ aspri e non melodici nell'accezione “pop” del termine; nonché, ovviamente, nella sua produzione ricca di pietre miliari, tra le quali “Paris milonga” (1981), “Paolo Conte” (1984), “Aguaplano” (1987), “900” (1992) e l’opera multimediale “Razmataz” (2000) sono forse le prime da prendere in considerazione se non si vuole ripiegare su un “best of” o magari su una raccolta di versioni “rivedute e corrette” come “Reveries” (2003). Dovunque ci si orienti, in ogni caso, l’unicità e lo spessore di Conte non potranno non rivelarsi nella loro essenza complessa ma nient’affatto respingente; perché l’anima c’è e non è certo soffocata dai riferimenti culturali, dall'eventuale utilizzo di ulteriori lingue assieme a quella che fu di Dante, dalle suggestioni di vario genere – l’(ex)Avvocato dipinge a livelli notevoli ed è appassionato/esperto di cinema, fumetto e letteratura – che tracimano dalle creazioni di questo raffinato, estroso funambolo del pentagramma e delle parole. Di affine a lui, seppure con caratteristiche diverse, c’è stato solo Enzo Jannacci, che a spegnere le fatidiche ottanta candeline non è sfortunatamente arrivato.
Mi sarebbe piaciuto raccontare qualcosa di meno “freddo”, su Paolo Conte, non dico di originale ma almeno di personale, ma non è stato possibile. Mi è capitato di incrociarlo ma – stranamente – non di intervistarlo, e la conoscenza che ho di lui è dunque derivata esclusivamente da ascolti, letture e visioni. Niente di diretto, insomma, ma non è per forza un male; seguirlo senza i condizionamenti dati dalle proprie impressioni, e con un affetto cresciuto a distanza ma non per questo meno sincero e profondo, può essere un valido aiuto per (continuare) a coglierne in maniera più lucida la grandezza. E allora, bene così e in alto i calici per il Maestro, benché con un piccolo rimpianto: se invece di aspettare i trentasette anni si fosse deciso prima a saltare il fosso e proporsi come cantautore, ora avremmo un tot di album in più dei quali godere.