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Now And Then dei Beatles, cosa rende così speciale l’ultima canzone dei FabFour

Si chiama Now and Then l’ultima canzone dei Beatles che riprende anche la voce di John Lennon e la chitarra di George Harrison.
A cura di Federico Pucci
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Non esiste notizia musicale più importante del mese (o dell’anno) dell’uscita di una “nuova” e “ultima” canzone dei Beatles. Ventisette anni dopo le due tracce postume pubblicate in coda al progetto mastodontico sugli archivi di Anthology (Real Love e Free As A Bird), Paul McCartney e Ringo Starr hanno completato un lavoro cominciato proprio allora. Tutto parte da una cassetta, forse di demo per Paul McCartney: quando nel ‘94 Yoko Ono la consegna ai restanti Beatles, di fatto riunendoli – ironia della sorte, vista l’ingiusta nomea di spezza-band – porta scritte le due parole “for Paul”, chiunque le abbia scritte. La qualità di registrazione di quest’ultimo postumo documento di John non era eccellente, ma abbordabile con la tecnologia del 1995.

Non per Now And Then, che sarebbe dovuta entrare nel terzo e ultimo volume discografico dell’Anthology e invece restò orfano di “nuovo inedito”. La qualità di quei 5 minuti struggenti era troppo bassa, sia per un ronzio causato dal rientro del microfono, sia per i disturbi e la saturazione. La registrazione, o forse anche il lavoro stesso sulla traccia – non ci è dato sapere con assoluta certezza – era stato giudicato non di sufficiente qualità da George Harrison (“f*****a spazzatura” testimonia Paul) e lasciato in un cassetto, “perché i Beatles sono una democrazia”. Purtroppo per tutti, specie familiari e amici, un terzo di quella democrazia si è spento nel 2001, e con soli due voti in ballo e una nuova incredibile tecnologia a disposizione, il cassetto poteva essere riaperto.

La tecnologia di cui parliamo è un programma di separazione di tracce audio: anche se Paul stesso ha usato la dicitura "intelligenza artificiale", non c’è nulla di esotico e fantascientifico in questo tipo di software, usato quotidianamente. Certo, non c’è nemmeno nulla di sbagliato nel parlare di AI, dato che molti di questi programmi si basano sul machine learning, ovvero la capacità di un programma di usare una grande mole di dati incamerati per fare con più precisione il suo mestiere. Ed è proprio questo che ha fatto il software usato dal sound editor di Get Back (la serie su Disney+ di Peter Jackson), Emile de la Rey: il programma MAL ha ascoltato ore e ore di voci pulite dei Beatles, e così ha imparato a riconoscerne i segnali puliti anche nella più rumorosa onda sonora. Risultato: dialoghi chiarissimi da seguire per consumare senza sforzo il lunghissimo girato, e due premi Emmy. Nel 2022 McCartney ha pensato bene di convocare MAL un’altra volta e chiedergli di pescare da quel demo scarso la voce di John (ormai più che archiviata nel suo set di dati). Già questo renderebbe più che speciale e storico il momento: perché, a prescindere dalle premesse e dall’esito, consente ai due Beatles sopravvissuti di continuare e concludere un dialogo interrotto troppo presto. Ma quindi, la canzone com’è?

Impossibile ascoltarla senza portarsi dietro un bagaglio emotivo non indifferente. Le canzoni, in fondo, piacciono anche per i ricordi che suscitano o per emozioni non strettamente legate alla qualità del brano (altrimenti Baby Shark e i revival senza gusto non avrebbero il successo che hanno). Ma dato che stiamo parlando del presunto ultimo singolo della più grande band mai esistita, dobbiamo giudicarla secondo lo standard altissimo a cui i Beatles ci hanno abituati. La produzione, tanto per cominciare, non è invasiva e rispetta lo spirito delle tarde ballad della band (e di McCartney): in sala di regia c’è Jeff Lynne, che già aveva lavorato sui singoli del ‘95 e ‘96, ed è conosciuto come uno dei più grandi beatlesiani del pianeta – basta sentire la produzione degli Electric Light Orchestra. Forse, possiamo sentirci gli interventi orchestrali o le fluttuazioni armoniche di Can’t Get It Out Of My Head, One Summer Dream o Telephone Line, lezioni che del resto Lynne aveva appreso sui dischi dei Beatles. Nella misura in cui portano avanti lo sviluppo armonico del brano, gli archi (incisi non a Abbey Road ma negli studi della Capitol a Los Angeles) hanno l’impronta di George Martin, il “quinto Beatle”, anche lui passato a miglior vita, e rappresentato in contumacia dal figlio Giles, l’arrangiatore. Per quanto riguarda tutto il resto, Now and Then è l’ultima conversazione a distanza tra due amici e due geni.

Ad ascoltare con attenzione, ogni sezione riflette le differenti personalità di Lennon e McCartney. La metà sopravvissuta del demo ha un’armonia lineare, epidermica, anarchica, dolce e ossessiva ma capace di improvvisi salti nel buio: insomma, un ritratto di Lennon consegnato alle note di un pianoforte. Nella strofa, sotto il mesto e ostinato riff vocale ribattuto dal piano, Lennon faceva girare un loop di due accordi nella tonalità di La minore naturale, ma lo spezzava d’un tratto con una singola nota, un Sol diesis che cambia punto di vista senza stravolgere tutto, suonato in un lungo e sostenuto Mi7 (nelle due battute in cui stiracchia “it’s all… because… of“): la perfetta normalità annunciata come una rivoluzione, un autentico talento di Lennon. Non contento, nel ritornello cambiava completamente tonalità (da La minore a Sol maggiore), ma senza preamboli né convenevoli, scivolando mollemente da un accordo tonico al successivo e aspettandosi che fosse il futuro ascoltatore a riempire gli spazi vuoti: l’altro suo talento, comunicare una rivoluzione con perfetta normalità. E cosa comunica oscillando in questo modo? Che la memoria è un luogo di piacere ma anche di dolore. Del resto, basta sentire le parole, ma pure l’andatura del ritornello: un “giro di Do”, forse il più soddisfacente e risoluto dei giri, ritardato da un accordo minore che mette i bastoni tra le ruote.

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Dalla sua, il bridge strumentale aggiunto oggi riflette il carattere metodico e competitivo di McCartney: un genio, sì, ma di quelli che non lasciano nulla al caso. La modulazione da La minore a Sol maggiore, che divide a metà la sezione, ripete lo stesso cambio di tonalità usato da Lennon: non è pratica comune inserire modulazioni dentro un bridge, semmai si usa il bridge proprio per cambiare tonalità – i Beatles erano piuttosto bravi a farlo. Ma Paul vuole farci sentire la sua idea di malinconia e dolcezza, il suo conflitto tra rimorso e nostalgia, per questo sceglie di cambiare tonalità. Ma alla sua maniera, con ingegno e mestiere: usando il Mi minore come ponte, e consolidandone le fondamenta con i bordoni in Mi dei violini. Il risultato è una transizione organica e naturale, come di chi ha avuto anni non per cancellare la pena dell’assenza, ma per prepararsi alle sue fitte. Il dialogo a distanza continua anche nella modulazione tra Re maggiore e Re minore (non una nota che “si alza” come aveva fatto John, ma una che “si abbassa”, il Fa): nel contesto della chiusura del bridge, questo accordo anticipa il cambio di tonalità che ci sarà alla ripartenza della strofa, e ci dice (non a parole) che una molecola di tristezza contaminerà anche la più trionfale delle risoluzioni armoniche. L’astuzia geniale è che questo cambiamento non toglie neppure un Newton alla potenza cinetica della risoluzione, quel Sol che a questo punto deve fare solo un piccolo passo in avanti per tornare al La minore della strofa – ma gli archi, invece, glissano in giù, colpo di genio alla George Martin forse merito del figlio. Insomma, a distanza di 45 anni Paul vuole ancora dimostrare a John di essere il migliore a scrivere un turnaround.

Come tutti i dialoghi a distanza, è solo un’immagine poetica, una cosa a cui vogliamo credere per dare consistenza ai fantasmi. E di fantasmi Now and Then è strapiena: ci sono alcune chitarre di George, incise nel ‘95, nella versione che giudicava “rubbish” del brano, insomma; ci sono le voci che armonizzano gli accordi di altre canzoni come Here, There and Everywhere e Because, in particolare fai caso al passaggio da Re maggiore a Re minore nella strofa di quest’ultima e alla fine del bridge del “nuovo” singolo. E poi c’è il fantasma della voce di Lennon, che notoriamente amava usare double tracking (cioè sovrapporre due incisioni con la stessa melodia) in tutto il suo repertorio, solista e no. E invece, qui, ci è consegnata in un simulacro, sottile e solitaria, risultando così inondata dall’obbligatorio riverbero. Ma i fantasmi li possiamo vedere anche noi: io vedo un cameo, forse casuale (Lennon non era puntuale come l’amico), degli accordi su cui McCartney cantava “You and I have memories” nella lontana Two Of Us, e che qui invece accompagnano la frase chiave “Now and then I miss you”. Potrebbe essere solo la fantasia auditiva di una persona che ha consumato troppe canzoni dei Beatles. E forse è questa la qualità ineffabile e speciale di Now and Then: piaccia o meno, ci ritroveremo dentro tutto quello che siamo e che abbiamo ascoltato, quello che abbiamo vissuto e le persone che abbiamo amato. Un potere simile ce l’ha solo un repertorio nella musica popolare. E giovedì 2 novembre, alle 14:00 ore inglesi, quel repertorio si è ampliato un’ultima volta.

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