Estraggo dallo scaffale un vecchissimo numero dello storico settimanale di musica (e altro) “Ciao 2001”, che porta la data del 5 settembre 1976. Lo sfoglio, e l’occhio mi cade sulla recensione di un 33 giri a me ben noto, evidentemente uscito da non troppo tempo: ipotesi più probabile, a inizio estate. Quale? “Nastro giallo” di Massimo Bubola, proprio l’esordio del cantautore. Sono dunque trascorsi ben quattro decenni da quando il musicista di Terrazzo, una cinquantina di chilometri da Verona, ha cominciato a raccontare le sue storie su disco, facendolo sempre con coerenza e competente cura da artigiano che ama il suo mestiere. Doti che, spiace constatarlo, non pagano come sarebbe giusto, ma che certo non hanno impedito a Bubola di andare avanti per la sua strada: un’abbondante quindicina gli altri album di studio messi in fila, prestigiose le collaborazioni, soprattutto inattaccabile la fama di artista “puro” che non si piega né si spezza. Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, parlano ad esempio chiaro la scelta autarchica compiuta a seguire la chiusura del rapporto con la CGD (dal 2001 il Nostro ha pubblicato quasi tutto per l’etichetta autogestita Eccher Music), il fermo rifiuto di forzare la mano all’ispirazione spingendola verso progetti non “sentiti” pienamente e – al contrario – il coraggio dimostrato nel lanciarsi in imprese creative di nicchia quali “Neve sugli aranci” del 2007 (come da nota sulla copertina: “Otto poesie, tre lettere musicate, due canzoni e un racconto irlandese”) o “Il testamento del capitano” del 2014, raccolta di adattamenti di canzoni della Prima Guerra Mondiale.
Al di là dei limiti e delle ingenuità di “Nastro giallo”, di cui tra l’altro non è mai stato confezionata una stampa in CD, in quel lontanissimo ‘76 il ventiduenne Bubola sembrava destinato a un ruolo non da outsider, bensì da protagonista. Il vinile era stato prodotto da Roberto Danè, arrangiato da Gian Piero Reverberi – due “fiancheggiatori” di Fabrizio De André – e marchiato dalla label cui lo stesso De André era legato da sei anni, la Produttori Associati. Roba grossa, insomma. E quando il Genovese, reduce dal “Vol. 8” concepito a quattro mani con Francesco De Gregori, propose al giovane di stringere sodalizio, nessuno ebbe più alcun dubbio sulla nascita di una nuova stella. De André e Bubola realizzarono a quattro mani due album (“Rimini” del 1978” e “Fabrizio De André”, ovvero “L’indiano”, nel 1981), con in mezzo il 45 giri “Una storia sbagliata” (1980), separandosi quasi subito dopo (nel 1981 Faber produsse per la FaDo il terzo LP del suo pupillo, “Tre rose”; a occuparsi del secondo, “Marabel” del 1979, era stato Antonello Venditti) e ritrovandosi nel 1990 per stendere il testo della celeberrima “Don Raffaè”, contenuta in “Le nuvole”: tutto materiale firmato al 50% da entrambi, e nonostante nelle registrazioni le parti di Bubola siano marginalissime (o inesistenti), chiunque abbia anche solo un minimo di sensibilità musicale non può non riconoscere come farina del sacco di Massimo le sonorità folk-rock filoamericane che le pervadono. Chi vedeva in lui un semplice gregario, magari di lusso, non aveva capito nulla.
Liberarsi dall’ombra (involontariamente) proiettata da un monumento come Fabrizio De André non fu facile, ma Massimo Bubola ci riuscì. Faticò un po’ all’inizio, come provano i due soli dischi confezionati nel prosieguo di ’80, ma da “Doppio lungo addio” (1994) a “Diavoli e farfalle” (1999), passando per “Amore & guerra” (1996) e “Mon trésor” (1997), seppe imporsi come voce più che autorevole del cosiddetto rock d’autore nazionale, inanellando brani dove l’intensità sposa poesia e letteratura, l’impegno civile e politico convive con il sentimento e la Storia e il contrasto fra luce e oscurità si appiana in un brillante storytelling la cui evocatività è sottolineata dal canto profondo. “Segreti trasparenti” (2004) e “Ballate di terra & d’acqua” (2008) si inseriscono con altre sfumature nel medesimo quadro, ma da un esame più attento del percorso di Bubola emerge di tutto e di più: produzioni artistiche di importanti gruppi rock italiani come Gang ed Estra, partnership di vario genere con Mauro Magani, Milva, Cristiano De André, Fiorella Mannoia (per lei ha composto “Il cielo d’Irlanda”) e altri ancora, divertissement di profilo (“Chapadero!” del 2009, “epopea tex-mex-western in undici episodi” a nome Barnetti Bros Band con Andrea Parodi, Massimiliano Larocca e l’americano Jono Manson, o “Romagna nostra” del 2010, rivisitazioni di classici del liscio), una buona manciata di CD dal vivo (fra i quali la bella collana “Il cavaliere elettrico”), l’autotributo “Dall’altra parte del vento” del 2008, con rielaborazioni di stralci del repertorio allestito con De André più qualche aggiunta “in tema”. E non sarebbe nemmeno finita qui, ma perché avvilire ulteriormente una vicenda ricchissima di vita e calore in un arido susseguirsi di eventi, dati e date? Le coordinate per un eventuale viaggio alla (ri)scoperta di Massimo Bubola non si dovrebbero ormai poter fraintendere, e allora ci si limiti ad alzare il calice in onore di questi quarant’anni sobri e assieme funambolici. Nonché splendidi, parafrasando una popolare battuta di Nanni Moretti.