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Maria Pia De Vito, una vita di musica: “Canto la condizione femminile in una società patriarcale”

Si chiama This Woman’s Work l’ultimo album di Maria Pia De Vito, una delle voci più importanti della musica contemporanea italiana che ha voluto mettere in musica una riflessione sulla condizione femminile.
A cura di Francesco Raiola
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Maria Pia De Vito (ph Andrea Boccalini)
Maria Pia De Vito (ph Andrea Boccalini)

Maria Pia De Vito è una delle voci più importanti che l'Italia può vantare. Non di Napoli, città in cui è cresciuta e che le ha fatto scoprire la potenza della musica e della sua voce, ma l'Italia intera dovrebbe essere fiera di un'artista come lei. Nella sua vita ha collaborato con alcuni tra i più grandi musicisti italiani e internazionali, esplorando le varie sfaccettature della musica, con le basi sempre piantate, però, nel jazz. Multistrumentista, tra le voci più potenti e riconoscibili del nostro patrimonio musicale, De Vito ha pubblicato un album, This Woman's Work, che mescolando riletture e brani originali riflette sulla condizione della donna in un mondo patriarcale e racconta le strategie di sopravvivenza per vivere e sopravvivere nella nostra società. Fanpage l'ha intervistata.

Come nasce l'esigenza di lavorare a un album come questo?

L'esigenza è nata durante seconda pandemia, ero chiusa in casa come tutti, avevo molto lavoro online, dal Conservatorio alla direzione del festival jazz di Bergamo di cui sono stata direttrice fino a pochi mesi fa, e non riuscivo a concentrarmi sulla musica, quindi mi sono dedicata alla lettura e alla scrittura. Una mia amica, la scrittrice Rossana Campo, mi ha fornito delle riflessioni e delle letture che riguardavano il mondo femminile, e questa cosa mi ha urtato un po', perché ho vissuto in un mondo, quello del jazz, che si fa tra pari, ma la stima e il lavoro felice coi miei amici musicisti non mi aveva mai fatto troppo riflettere su questa cosa a livello personale. Ovviamente sono testimone, come tutti, di un mondo che è ancora patriarcale, nonostante in altri Paesi la situazione sia devastante e noi siamo molto più fortunati, però continua a essere un sistema patriarcale. Continua a esserci una questione di genere, e la lettura di alcuni libri mi ha scosso, in particolare di "Memorie della mia inesistenza" di Rebecca Solnit, un libro che parla delle vicissitudini di una saggista matura, brava, della sua giovinezza, dei primi passi sul lavoro, descrivendo una serie di stati interiori che erano anche miei e frequentando anche persone più giovani ho visto che erano di tutte e così mi sono detta: "Io non ho mai parlato in musica di questa cosa, ho parlato di tante cose, come, per esempio, di quanto siano odiosi i sovranismi, nello scorso ‘Dreamers'", questa volta, però, l'ho sentito nello stomaco.

Ha avvertito una maggiore consapevolezza nel suo ambiente riguardo a questo tema?

Sì, c'è, anche se devo dire che il mio non è un disco femminista, nel senso che la mia riflessione parte dalla consapevolezza che il mondo è così, che si stanno aprendo tante cose, ma che c'è un bias cognitivo. Ci sono due cose che a me non piacciono: la cancel culture, intesa come la demonizzazione di qualcosa individuata come nemica, e le quote rosa, perché non bisogna creare un protettorato del femminile, si tratta, invece, di riconoscere la forza delle donne. In questo senso, l'aver avuto ruoli diversi di quello di semplice musicista mi ha dato un altro punto di osservazione: vedo e sento come sia difficile che a una donna in una posizione di potere venga serenamente assicurata credibilità e che a seguito delle sue parole ci siano delle conseguenze.

Ed è questo che ha messo in This woman's work…

In questo album era importante fare una riflessione, parla delle strategie di sopravvivenza delle donne: se sei gentile sei considerata debole, mentre un uomo è di garbo. Se un uomo è aggressivo è assertivo, se lo è una donna è isterica, tanto non le si crede. Per quanto riguarda questa incredulità ho una lunghissima esperienza e me ne sono sempre fregata perché ho deciso, fin dal primo secondo, che la professionalità era la mia arma, mi sono mossa in un ambiente in cui questo raccoglieva conseguenze e questa cosa mi ha sempre dato la stima dei colleghi ed è stato un abbrivio importantissimo che mi ha portato a crescere. Quindi questo dialogo come lo impostiamo? In questo disco c'è tutto questo, è un ragionamento su vari piani dell'esperienza femminile e anche ragionamenti sulla relazione col maschile.

Ci tiene a non definirlo una denuncia, ma una riflessione sulla condizione femminile, oggi, non è anche una denuncia in sé?

Sai perché dico che non lo è? Perché è già talmente tutto sotto agli occhi, è pleonastico fare la denuncia. Ammazzano donne in continuazione.

Prima faceva una riflessione sulle quote rosa, ma le chiedo: nel mondo patriarcale che descrive, la quota rosa non può essere un modo per cominciare a dare una visibilità alle donne che altrimenti non le sarebbe data?

Non lo nego, in certe situazioni è importante. Ovviamente io parlo della mia esperienza di artista, è come se fosse una riflessione da artista sul lavoro dell'artista. È un argomento molto ampio e scottante che rischia di non terminare mai. La mia è una riflessione molto intima nonché l'espressione di certe mie riflessioni di maturità. A 20 anni non avrei potuto fare questa cosa.

Nella scelta della rilettura di alcune canzoni si è posta la questione del maschile e del femminile degli artisti originari?

No, non me la sono chiesta, sono sempre stata consapevole di entrare in un mondo maschile, il mio mito era Charlie Parker, assieme a Ella Fitzgerald, erano i Weather Report, mi sono mossa come un essere neutro rispetto alla musica. Devo dire che un cambiamento forte è avvenuto quando ho lavorato su Nauplia (album del 2018, ndr) ed è venuta fuori una voce ancestrale col napoletano. Andrea Zanzotto chiama la poesia "la voce di latte" e io nel napoletano ho trovato la mia voce di latte e anche una lingua poetica fortissima. Là mi sono rapportata al mio femminile, è stato uno tsunami che mi ha fatto rendere conto di certe cose. Per la mia storia personale il tema del femminile è sempre stato importante, ma per quello delle ispirazioni il problema non me lo sono mai posto. Oggi, per fortuna, stanno uscendo tante donne con una potenza musicale pazzesca, credo che le vie si apriranno sempre di più.

Cosa ha aiutato questo riemergere delle voci femminili?

L'Italia è arrivata 20 anni dopo rispetto all'insegnamento della musica nei conservatori. I tanto vituperati Conservatori, però, hanno contribuito all'apertura alle donne perché per una ragazza di una provincia sperduta che dice alla madre di voler fare la batterista non è facile, eppure tante ragazze sono andate lì a studiare lo strumento. Esiste un problema sociale per cui le donne non sono tantissime: fino a quando le donne non hanno avuto un'indipendenza economica? Fino a quando non hanno potuto studiare? L'insegnamento a scuola negli anni 60 prevedeva Economia domestica, il modello sociale prevedeva domande quali: quando ti sposi? Quando fai bambini? Culturalmente c'è stato un problema che non ha permesso alle donne di essere dove ci sono stati sempre uomini ed è là che bisogna agire, perciò non sopporto le quote rosa, dico: apriamo le possibilità culturali, facciamole uscire dai ghetti.

Da quale ricerca è nato quest'album?

Quest'album nasce da questa esigenza di parlare di un argomento, così pian piano mi sono messa a cercare brani che fossero in consonanza con il tema, ho trovato "I want to vanish" di Elvis Costello, che esprimeva perfettamente il concetto di cui parlava Rebecca Solnit, delle giovani donne che vivono questo contrasto tra il voler affermarsi e il voler sparire: fino al compimento dei 12 anni vai in giro, giochi a calcetto, poi hai la maturazione sessuale, il corpo diventa pericoloso, ti devi coprire, non puoi uscire più sola la notte. Quindi ho trovato questa canzone e l'ho messa da parte, poi è arrivata Fiona Apple, che per me è la risonanza dell'ipersensibilità di certe artiste che è difficile da collocare. Insomma, io procedo per associazioni e per intuizioni, perché mi devono interessare i testi ma anche musicalmente devo sentire che si possono rielaborare. Non mi pongo il problema dei generi, mi pongo il problema della coerenza del racconto che viene dato dalla mia voce e da un grande lavoro, come gruppo, per produrre un suono che sia quello riconoscibile dall'inizio alla fine dell'album.

E questo che stile ha?

Questo è un album elettrico, non c'è il pianoforte, però c'è un bassista che sa usare anche le tastiere e l'elettronica, un chitarrista che ha un tocco dolcissimo alla Frisell, ma un uso dell'elettronica magmatico per cui ti puoi aspettare di tutto, prendi la title track, This Woman's Work, che ha una chitarra che sembra un organo. Poi cerco questi brani conosciuti, non importa chi li ha scritti, mi deve arrivare qualcosa e poi ci sono i brani originali in cui dico delle cose più specifiche: in questo caso ho scelto tre brani di Matteo Bortone e ho adattato due poesie, una di Gabriele Frasca, con cui collaboro da anni, e uno di Edna St.Vincent Millay, un mio mito personale, e poi un testo completamente mio, originale, per il brano The elephant in the room. Ritornando alla questione dello stile, quindi, ho cercato dei musicisti che avessero questo suono elettrico, ho proposto i brani e abbiamo molto lavorato insieme, tranne sui brani di Bortone dove lui, da compositore dell'impianto di base – io ho collaborato con la melodia e il testo – aveva le idee chiare.

Cosa la interessa oggi, sia musicalmente che come ricerca personale?

Per tutta la mia vita sono stata motivata dall'intersezione tra i linguaggi, a me piace il mio cantare in napoletano, però mi sento a disagio a stare in una tradizione perché la tradizione c'è già ed è bellissima, con migliaia di versioni stupende di ogni brano. A me piace dare una lettura personale attraverso le assonanze, è stato così con il napoletano e l'improvvisazione europea, con Rita Marcotulli, con John Taylor e Ralph Towner, però poi ho cercato e trovato la vicinanza tra il Brasile e Napoli e c'è stato l'incontro con Chico Buarque. Mi piace lavorare su questi margini tra i linguaggi, questo continua interessarmi. Poi mi interessano la lettura e la filosofia, cerco questi spazi dove ci possa essere una cosa in cui io dico qualcosa di riconoscibile, con un mio stile a cui sono fedele, non un genere a cui sono fedele. E poi mi interessano, soprattutto, i giovani con cui sto suonando, mi piace vedere attraverso i loro occhi.

Tra i tanti prima citava Chico Buarque, quali sono stati gli incontri che l'hanno segnata?

Ne ho fatti talmente tanti che sono stati tutti un pezzo della mia crescita, però posso dire questo: se parliamo di nomi stranieri, Joe Zawinul mi lanciò sul palco con lui più volte, mi ha dato un grande aiuto, mi dissi che se Dio – cosa che lui era per me – credeva in me allora anche io potevo farlo e ho cominciato ad andare a New York. Poi ci sono stati gli incontri con John Taylor, Ralph Towner, Huw Warren, Chico Buarque, che è stato colui che mi ha proprio dato il là sulla poesia, nel napoletano e nella traduzione. Io già scrivevo i miei testi in napoletano, erano piuttosto riflessivi, si muovevano tra tenerezza e riflessione e Cicho Buarque è stato un maestro pazzesco, discuteva parola per parola, una scuola incredibile, mi si è aperto tutto un mondo narrativo per cui poi ho fatto anche dischi come Dreamers, in cui non ho composto niente ma ho esplorato le parole di altri. Poi ci sono stati il napoletano e il barocco, il napoletano e il Rinascimento, ho fatto il disco sulle moresche di Orlando di Lasso, che era una cosa che avevo in testa da quando le sentii a 18 anni: un tributo al mondo che mi ha aperto Roberto De Simone quando ero quattordicenne.

Se non ci fosse stata Napoli, dove ti sarebbe piaciuto nascere?

Ah, non ne ho la benché minima idea, perché è talmente tanto Napoli per me. Io ho imparato le canzoni napoletane a casa, sentendole cantare da mia madre quando tornava dal lavoro, e le sentivo per strada prima di sentirle su qualsiasi disco. Non c'erano tanti dischi a casa, abitavo a Montesanto, al primo piano, ero sempre sul balcone e sentivo musica continuamente. Poi a 14 anni arrivarono la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto De Simone, Pino Daniele, andavo con gli amici alla Biblioteca nazionale a cercare testi in napoletano da musicare, è una miniera talmente grossa e inesauribile e soprattutto un laboratorio di assimilazione di linguaggi diversi anche perché questa città è il posto più meticcio e più riuscito da questo punto di vista. Nel Cinquecento c'erano quattro conservatori, oltre a Vienna, Mozart passava di qua per sapere che cosa si faceva. La sento molto questa cosa, anche se sto facendo un disco così, a me questa visione un po' a grandangolo sulla musica mi viene da Napoli. Non lo so che sarebbe successo se fossi nata altrove.

Prima parlava delle difficoltà di fare questo mestiere da parte di una donna, quando ha capito che fare musica poteva essere una strada percorribile?

In realtà la musica mi è venuta a prendere perché mi hanno sempre chiamata sempre, benché fossi convinta che avrei fatto la pittrice, la scrittrice o qualcosa del genere. Però mi chiamavano qua, mi chiamavano la, e mi dicevo: questa voce ha un potere, io canto e la gente si ferma. E infatti a 19 anni ho avuto proprio un momento di crisi dal quale sono uscito dicendo "musica e basta".

E come è stato entrarci?

Bellissimo. Come ti dicevo venivo chiamata spesso,  poi ho fatto parte di un gruppo che si chiamava il Tiglio, ci sono entrata a 16 anni e cantavo: c'era un professore dell'Orientale che aveva una collezione di strumenti da ogni parte del mondo, ma soprattutto dell'Est europeo e del Sud America, così ho imparato a suonare il çiftelia, la balalaika, il bouzouki, strumenti a percussione. Ho cantato in 13 lingue diverse tra i 16 anni e 19 anni: lo facevo in macedone, albanese, russo, greco, la prima polifonia spagnola, quella delle Ande, ho avuto una fortuna pazzesca perché sono entrata in questo frullatore musicale, nel frattempo avevo avuto una pratica di 7/8, 11/8, cioè tutte cose che mi hanno poi fatto affrontare il jazz in una certa maniera. Un giorno ero per strada, mentre camminavo mi chiedevo che avrei fatto, cosa avrei cantato, mi sono ricordata di Ella Fitzgerald ospite di Frank Sinatra alla televisione, lei faceva skat e io non sapevo manco chi fosse. Ero all'edicola sotto casa, c'era questo disco di Ella con un solo pezzo che era "Air Mail Special" e sono stata tre giorni chiusa in casa a impararlo a memoria, poi sono uscita, andavo in giro a dire: "So fare questo", tu conosci un pianista di jazz? Prima, però, è arrivato un chitarrista, Scarano, poi il fratello, poi mi hanno presentato altri musicisti, poi sono arrivati Marco Sannini, Daniele Sepe, tutti i musicisti della mia generazione, suonavamo insieme.

Una delle cose affascinanti, quando parlo con gli artisti che hanno fatto la storia della musica a Napoli, è il racconto di quelle mitiche jam fatte negli scantinati, nei localini…

È stata una cosa super formativa: eravamo pochi, ci cercavamo e condividevamo molto. Ricordo la prima volta che mi hanno portata sul palco con loro, c'erano Marco Sannini, Sandro De Piscopo, Vittorio Pepe e Sannini mi diceva: "Esci, canta ‘Round Midnight e improvvisa un blues" e io dicevo: "Ma come improvvisa?", non avevo mai improvvisato, infatti la prima volta l'ho fatto direttamente in pubblico. Poi ho sentito la registrazione, mi sembrava facesse schifo anche se non ero mai andata fuori tempo, e da quel momento sono partita immediatamente come improvvisatrice.

Lei era l'unica donna, no?

Sì, ero l'unica donna, l'unica donna a Napoli che faceva questa cosa qua. Poi quando sono arrivata a Roma, mi chiamarono a insegnare al Saint Louis, mi resi conto che esistevano altre donne che cantavano e c'era il confronto. Tutta la nostra generazione è composta da artisti con 10-15 anni di gavetta fatta di club, un lavoro molto importante secondo me, perché ti rende liberissimo.

E qual è stato il periodo più stimolante?

Quando avevo 15-16 anni ci fu il famoso Festival dell'Unità alla Mostra d'Oltremare a cui parteciparono un milione di persone. Quello era un momento molto forte e anche se io ero ancora piccola, facevo parte di un gruppo che si rifaceva alla Nuova compagnia di canto popolare; era un momento in cui Napoli "friggeva", prima ancora che io passassi al jazz ed entrassi in questa sorta di situazione carbonara in cui intorno a me esplodeva tanta roba. Pino Daniele era nella piena esplosione, io fui chiamata da Eugenio Bennato nell'ultima formazione di Musicanova, ma in tutta Italia era un momento pazzesco, noi arrivammo a suonare a Roma, dove c'erano Massenzio, il Circo Massimo, il festival del Brasile con decine di migliaia di persone, Joao Gilberto con l'orchestra d'archi davanti a 15.000 persone. Era un momento storico per l'Italia e per me è stato importantissimo. Ho visto quanta forza c'è stata nella musica negli anni 80, nonostante il mondo del jazz italiano fosse considerato di nicchia, è stato molto importante per l'apertura e l'unione tra linguaggi, così quando nel '94, insieme a Rita Marcotulli, ho prodotto Nauplia, era un momento in cui certi accostamenti non erano più una bestemmia. Io stessa sono stata talebana del jazz nei primi anni di formazione, però come fai a essere veramente talebano se nel frattempo senti i Weather Report e John Taylor con Kenny Wheeler e Norma Winston. Cioè questa apertura di questo mondo secondo me ha reso il jazz un luogo molto fecondo per la musica italiana.

Torniamo all'album, mi parla di Dispossession?

Questa canzone è una combinazione di due poesie di Gabriele Frasca, una che fa parte di una galleria di poesie in cui lui descrive dei personaggi con questa donna in carriera che racconta di questa posizione di lavoro e di potere che è sempre fatta di maschi, dove se vinco sono prigioniera: "una che andava di carriera, farò che dal mio corpo, il corpo caschi e io sia la cerniera", nel senso che un corpo non deve esistere più, devo stare in mezzo ai maschi come un maschio. Devo diventare più brava del mio capo, nella sua modalità, che è una modalità che però mi uccide! Per questo uso un pezzetto di un'altra poesia di Frasca che è "Speranzosa" che dice: "Ricordati che esiste un tempo che ci è proprio per crescere e un tempo destinato al proprio esproprio". Cioè se io per raggiungere il potere devo ferire una parte di me stessa, dove sta la libertà? È un ragionamento su di me in cui mi chiedo: che cosa faccio io quando mi metto in rapporto con le posizioni di potere?

E Love must be this?

Love must be this è una poesia di St.Vincent Millay, una delle cose più belle che io abbia letto in vita mia, perché parla di una cosa con la quale io nella mia vita mi sono confrontata moltissimo: in un Paese patriarcale, in cui c'è quella grande mamma mediterranea che l'uomo cerca sempre nella donna, l'accudimento, la sicurezza, per una donna che fa l'artista è molto più difficile trovare un uomo disposto a starle vicino e a supportarla. Quanti artisti hanno le mogli dedicate? Per una donna, al contrario, è difficilissimo, e in quella poesia si dice: per un giorno sopporta la mia gioia, ho visto che a te le cose in questo momento non ti sta andando bene, ma a me stanno andando bene, stai un attimo vicino a me e io poi sto vicino a te, perché se l'amore deve essere qualcosa deve essere questo. Mentre l'ultimo testo, quello di Elephant in the room, è quello in cui faccio un rap piuttosto duro, è un excursus di esperienze della mia vita, ma anche della vita di donne che conosco, in cui sei arrabbiata con te stessa perché magari in una situazione in cui sei stata in mezzo a uomini di potere, ti sei bloccata mentre qualcuno diceva qualcosa che era chiaramente maschilista e tu non ci può far niente perché c'è questo elefante nella stanza.

Tipo?

Un sacco di donne mi hanno detto che quando si sono sono trovate in una stanza con un'altra persona e lei era quella piena di competenze per fare un lavoro, alla fine quello viene dato a un uomo che non sa nulla e che mi romperà le palle per le prossime ore per imparare quello che io so. Oppure una cosa che mi dà fastidio è quando ti dicono che sei una signora perché non ti arrabbi mentre tu vorresti prendere la clava e spaccare la stanza, però se lo fai passi dalla parte del torto, questa è una cosa che mi fa arrabbiare e questa l'ho voluta mettere dritta dritta.

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