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Maneskin, da Sanremo all’Eurovision: “Rispondiamo con la musica a chi ci dice che siamo scarsi”

Hanno vinto Sanremo in maniera quasi inaspettata, forse neanche I Maneskin stessi credevano di poter trionfare portando sul palco dell’Ariston, con “Zitti e buoni”, chitarre e bassi distorti, un’estetica glam e una voglia di spaccare tutto che hanno messo anche nel loro ultimo album “Teatro d’Ira Vol.1”.
A cura di Francesco Raiola
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Hanno vinto Sanremo in maniera quasi inaspettata, forse neanche I Maneskin stessi credevano di poter trionfare portando sul palco dell'Ariston, con "Zitti e buoni", chitarre e bassi distorti, un'estetica glam e una voglia di spaccare tutto che hanno messo anche nel loro ultimo album "Teatro d'Ira Vol.1". Un album che rispetto al precedente, il fortunato "Il ballo della vita" perde alcune sfumature più morbide, le chitarre funky, per esempio, le ballatone con Marlena e ne guadagna in schiettezza. Un album più dritto, con meno fronzoli, molto suonato, che li ha portati a mettersi in gioco: "Prima avevamo le sequenze che comunque fanno le differenze, poi ci siamo sganciati da quel mondo lì e ci siamo detti ‘Suoniamo in power trio', portiamoci un suono dietro per cui basso, chitarra e batteria devono reggere da sole". Sono passati quattro anni dal secondo posto a X Factor e dal rischio di essere una meteora, oggi sono cresciuti – ma restano giovanissimi – e si levano anche qualche sassolino dalla scarpa, come spiega Damiano a Fanpage.it parlando di "tutti quelli che pensano che fare il musicista non è un lavoro ma un hobby" ma anche di "quelli che ci dicono che non siamo una band, che ci scioglieremo in due mesi, quelli che dicono che siamo scarsi". La prossima tappa è l'Eurovision di Rotterdam, dove cercheranno di capire quanto la loro voglia di andare oltre i confini è un sogno possibile. Ne abbiamo parlato con Damiano,Victoria, Thomas ed Ethan.

Avete parlato di rivoluzione: in che senso la vostra vittoria è rivoluzionaria e quale rivoluzione può portare oggi Sanremo?

D: La rivoluzione di cui parlavamo era quella di essere andati al Festival portando un pezzo che non era pensato per vincerlo, che non era in quella che è la canzone tipica di Sanremo. Siamo una band e come sappiamo le band non hanno mai avuto grande fortuna lì, abbiamo portato un pezzo con chitarre distorte, basso distorto, un ritornello non melodico… La rivoluzione che pensiamo di aver portato è quello di aver portato un tipo di musica che non aveva mai raggiunto la vittoria al festival e ci sentiamo di aver fatto qualcosa che può essere importante per Sanremo.

Cosa ha portato, oggi, a questa possibilità? Vi siete dati una risposta?

T: Non lo sappiamo, siamo andati là portando ciò che ci piaceva suonare, siamo stati semplicemente naturali, magari è trasparsa molto questa cosa, abbiamo avuto un sacco di feedback sulla serata delle cover, degli inediti e quello che ci ha colpito è che è emersa quella sincerità e quel divertimento che provavamo suonando sul palco. E anche il fatto, magari, che può essere stata una novità per persone che non sono abituate a sentire questo tipo di musica, che era da riscoprire. Forse i nostri genitori la conoscono bene, ma le nostre generazioni non l'avevano scoperta così bene. È stato anche questo un punto di forza, perché è una novità che non è una novità.

È vero comunque che da un po’ di anni è mancato un movimento – più che scena -, a livelli alti. Quanto può aver giovato essere una sorta di unicum?

V: Anche una persona che non è interessata al genere e non conosce altri gruppi può appassionarsi, anche semplicemente vedendo sul palco quattro ragazzi che suonano gli strumenti, accompagnati poi dall'orchestra. In più con un brano che anche se uno può dire che non siamo rock, non siamo i Led Zeppelin – e grazie! – è differente rispetto a quello che viene portato su quel palco, anche rispetto agli altri concorrenti di quest'anno. Non è uno screditare, ma sono due cose diverse e pensiamo che questo impatto arrivi, al di là dei puristi che ci devono insultare, però questa differenza arriva a prescindere dal fatto che esista una scena o meno.

Rispetto a "Il ballo della vita", "Teatro d'ira vol.1" è meno funky, ma molto più dritto come suono. Come ci siete arrivati?

D: È stato un processo, una maturazione. Ci siamo accorti che volevamo portare quello che era il live nel disco e non il contrario, e questo deriva dal lungo tour che abbiamo fatto in Italia e in Europa, poi siamo rimasti affascinati dal periodo passato a Londra, dove uscivamo ogni sera ascoltando tre band diverse ogni giorno, la stragrande maggioranza punk. Ci siamo detti che volevamo fare un disco che suonasse live già dal disco, col pezzo registrato che ti doveva già far pensare a cosa sarebbe successo sul palco, perché anche quella è la nostra forza. C'è stata una grande consapevolezza da parte di tutti, per quanto riguarda lo strumento, il proprio suono, penso che adesso siano riconoscibili singoli suoni. Non è un caso che è un disco senza sequenze, non ci sono più trombe, lo shaker, ma fanno tutto loro tre perché possono farlo.

C'è una scena inglese "rock" molto forte, alcuni li avete citati, che però si rifà più a suoni anni '80, voi invece come vi siete mossi?

V: Ci sono tantissimi gruppi che apprezziamo, tipo i Muse, che pure usano suoni digitali, sequenze etc, ci sono tanti approcci diversi al genere rock che è ampissimo, quindi è anche limitante dover incasellare alcune caratteristiche a quel genere. Per noi è stato naturale muoverci come abbiamo fatto perché suonando da anni live ci siamo resi conto di quello che ci piaceva e quello che ci piaceva meno.

T: Quando abbiamo scritto il primo album eravamo proprio piccoli, ci siamo ritrovati con davanti mille possibilità, quindi ci dicevamo: "Qui mettiamo le trombe, qua i violini", potevamo fare tutto e ci siamo sbizzarriti. Eravamo piccoli, entusiasti di tutto, poi suonando in tour ci siamo resi conto che alcuni brani più suonati, con meno produzione, più scarni, ci divertivamo di più ed erano più nelle nostre corde. Quindi sia per gli ascolti che abbiamo maturato, che per l'esperienza a Londra e il tour, suonarlo così ci è venuto naturale.

Questo dimostra quanto è importante il live anche nel suono di una band e in particolare di una band come la vostra.

T: Tantissimo, è fondamentale, prima avevamo le sequenze che comunque fanno le differenze, poi ci siamo sganciati da quel mondo lì e ci siamo detti "Suoniamo in power trio", portiamoci un suono dietro per cui basso, chitarra e batteria devono reggere da sole, cercando un'alchimia perfetta almeno sulla strumentale, poi di Damiano sappiamo già. Abbiamo creato tanto puntando al live, ad avere un suono massiccio che potesse rispecchiare sia la versione studio che quella live

V: Proprio mentre scrivevamo ci dicevano che avremmo dovuto farlo in modo che l'arrangiamento del brano avrebbe retto senza sequenze, proprio a livello di arrangiamento nel vecchio album c'erano momenti in cui Thomas faceva delle parti più alte, che suonando solo in trio non reggevano poi tanto. Questa volta ci siamo detti di fare come se fossimo in sala per un concerto in cui avremmo suonato solo noi tre. Prima ci autoimponevamo dei limiti, poi, ci facevamo problemi, evitavamo di mettere assoli, per esempio, ci dicevamo: "No, macché…".

E: È cambiato l'approccio mentale di base, individuale e di gruppo e magari è una cosa che noi sottovalutiamo, ma veramente quando abbiamo cominciato questo eravamo piccoli, e tuttora siamo abbastanza giovani. Essere cresciuti insieme ha cambiato molto.

Per quanto riguarda la parte testo sento ancora molta voglia di rivalsa. Penso a versi come: "Fate spazio, fatene tanto che adesso non mi basta il mondo non mi basta il palco", "Il mio passato non me lo scordo non lo rinnego colpisci forte tanto non cado rimango in piedi" o "Di cos’è fare l’artista te ne hanno mai parlato? Di tutto quello che ho perso che ho sacrificato".

D: Tutti i testi sono una traslazione in musica di quello che ci succede e ci sta succedendo, quello che viviamo. Diciamo che ci sono tante cose che finiscono nel calderone. Per esempio "Di cos’è fare l’artista te ne hanno mai parlato?" è pure un modo per rispondere a tutti quelli che pensano che fare il musicista non è un lavoro ma un hobby, che stiamo tutto il giorno a fare niente poi ci svegliamo un giorno, scriviamo una canzone, così, si registra da sola e diventiamo miliardari. No, ci facciamo un culo così, come è giusto che sia, però il nostro resta un mestiere e va trattato con rispetto. Nel calderone ci finiscono quelli che ci dicono che non siamo una band, che ci scioglieremo in due mesi, quelli che dicono che siamo scarsi, che ci odiano, un mix delle nostre esperienze racchiuse nei testi.

La scelta di continuare con una serie di brani in inglese è per un'idea di internazionalizzazione, di voglia di tentare realmente la strada oltre i confini nazionali? Una voglia di dire "Possiamo giocarcela"?

D: Certamente, noi abbiamo fatto un tour europeo che pensavamo andasse quasi deserto e invece era pieno; certo, erano locali piccoli, ma erano comunque pieni, un giorno apri Instagram e c'è la fanpage in Brasile, un altro ti scrive la ragazza dalla Polonia, poi con questa cosa dell'Eurovision l'Europa si sta svegliando per quanto riguarda il nostro nome. Poi noi pensiamo, forse con un po' di presunzione, di avere un taglio internazionale, sia a livello musicale che attitudinale, estetico, pensiamo di essere un prodotto internazionale.

E: Ovviamente tutto questo è venuto in maniera spontanea, non è che ce la siamo imposti, semplicemente esprimiamo noi stessi con la musica.

D: Io, poi, ho cominciato a scrivere in inglese, l'italiano è arrivato dopo.

Le unghie nere, l’eye-liner, naziskin, il vestito e compagnia. A volte dei Maneskin si parla più per altro che per la musica, come vi ritrovare in questa narrazione?

D: Pensiamo che l'effetto meme sia una conseguenza inevitabile della tv del grande pubblico, quello era inevitabile, sapevamo che avrebbe fatto parte del gioco, popi vincendo, con me che ho pianto, Vic con le parolacce, Thomas con le facce strane, ma sappiamo che questa cosa fa parte del gioco. Magari alla lunga può anche dare fastidio, ma la nostra risposta è con la musica, quando saliamo sul palco nessuno si mette a pensare ai meme.

V: Anzi, a dirti la verità, siamo stati felici perché il focus è stato mantenuto molto sulla musica rispetto a quello che poteva essere, è inevitabile che ci siano commenti sull'estetica, i meme, però il focus è stato molto mantenuto, ricordo che quando andavamo su Twitter a cercare i commenti tutti parlavano della canzone, su come suonavamo.

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