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Lucio Battisti: buon compleanno, “Anima latina”!

In questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario della pubblicazione di uno dei dischi più singolari e discussi del cantautore (sì, cantautore) di Poggio Bustone. Ricordiamone la storia e la leggenda, fra polvere e altare.
A cura di Federico Guglielmi
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Esattamente quarant'anni fa, nel dicembre del 1974, la Numero Uno commercializzava “Anima latina”, l'ottavo, vero album di Lucio Battisti. Più che “controverso”, come si dice di norma in queste circostanze, fu sostanzialmente incompreso, anche se il successo dei suoi predecessori lo fece schizzare di default in cima alla classifica e acquistare da 250.000 persone. In generale, nei suoi confronti la critica fu assai poco benevola, e anche se l'unanime beatificazione con senno di poi ha ribadito per l'ennesima volta la fondatezza del detto “il tempo è galantuomo”, nella memoria collettiva delle masse il disco rimane tuttora una Cenerentola e non c'è in fondo da meravigliarsene. “Due mondi”, l'unico 45 giri che ne fu tratto, venne pressoché ignorato dal pubblico e il famoso cofanetto antologico del 2004, “Le avventure di Lucio Battisti e Mogol”, non ne recuperò neppure un pezzo, mentre nel secondo volume del 2005 ne vennero ripresi solo sette (gli esclusi furono “Gli uomini celesti”, “La nuova America” e le due “reprise”). La sua colpa, ovviamente tra virgolette? Aver rinunciato ai brani di facile presa, quelli reputati a braccio canzonette benché tali non fossero (cose simili accaddero e accadono ancora ai Beatles: gran brutta bestia, la superficialità), a favore di composizioni di più ampio respiro dove l'artista di Poggio Bustone, allora trentunenne, potesse mettere apertamente in luce il suo talento di musicista creativo e coraggioso.

Nel numero 48 del 1974, uscito il 1° dicembre, “Ciao 2001” – la più popolare rivista musicale dell'epoca – non si fece scrupolo di dare la copertina proprio a Battisti, forte di un'intervista “estortagli” da Renato Marengo (quattro anni fa la Coniglio Editore l'ha riesumata in “Lucio Battisti – La vera storia dell'intervista esclusiva”, arricchendola di saggi, ricordi e testimonianze). Non era un rocker, ok, ma i suoi ultimi due LP “Il mio canto libero” e “Il nostro caro angelo” erano stati rispettivamente il primo e il secondo più venduti in Italia del 1973 e il personaggio, così refrattario a concedersi ai media, interessava a prescindere. Figuriamoci parallelamente all'immissione sul mercato di un 33 giri che lautore descriveva come “un'operazione culturale, quasi un esperimento, e tale dovrà restare” e che intendeva gettare un ponte fra il Sudamerica dove Battisti aveva viaggiato per una ventina di giorni assieme a Mogol e le tendenze progressive del periodo. La “musica come vita, come possibilità di stare insieme, di ballare insieme, di protestare insieme” legata a una ricerca sonora che lasciava da parte i soliti archi a favore delle tastiere elettroniche (affidate, secondo gli esperti, a Gian Piero Reverberi, accreditato però come Gneo Pompeo), che giocava con i ritmi latini, che organizzava concatenazioni e autocitazioni da opera rock, che in alcuni punti nascondeva la voce per stimolare un ascolto attento. Nelle edicole la rivista andò via come il pane, con buona pace di chi aveva interpretato come annuncio di simpatie fasciste le braccia alzate sulla copertina de “Il mio canto libero”.

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In quel 1974 già quasi 1975, lo ammetto, Lucio Battisti non era più una mia priorità. Vero che “Il mio canto libero” era stato il primo vinile di grande formato che mi fossi portato a casa, ma a quattordici/quindici anni subivo già ben altre fascinazioni e la pubblicità negativa mi tolse la voglia di assaggiare “Anima latina”. Quando lo feci, sempre giovane ma (un po') meno stupido, scoprii un mondo di note, parole e suggestioni dove gli echi del Brasile incontravano le trame avvolgenti di un (soft) rock filosinfonico ambizioso ma non tronfio, con tre pezzi sopra i sette minuti di durata, un duetto (una rarità, per il Nostro) con Mara Cubeddu (già Flora Fauna Cemento, al tempo Daniel Sentacruz Ensemble), una “Anonimo” che da un lato scandalizza con l'uso del termine “masturbarsi” – non proprio gettonatissimo, nel pop di allora – e dall'altro rende omaggio alla vecchia hit “I giardini di marzo” e mille altre sorprese, il tutto accompagnato da una confezione che trasmette vivacità e gioia. Un unicum nella pur eclettica discografia battistiana, alla quale un anno e spiccioli più tardi si aggiunse un nono capitolo meno strano ma comunque sui generis, “Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera”, realizzato scippando all'Eugenio Finardi di “Sugo” e “Diesel” la sua favolosa sezione ritmica. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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