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L’Italia allo Sziget, Coma_Cose: “La nostra è musica ‘zapping’, così cerchiamo la novità”

I Coma_Cose stanno scrivendo il loro personalissimo pezzo di storia nell’ambito del cantautorato italiano, grazie a uno stile a intermittenza, ‘enigmistico’, destinato a lasciare il segno. Li abbiamo incontrati allo Sziget Festival, uno dei più grandi eventi musicali al mondo, dove si sono esibiti come uno dei principali gruppi italiani di questa edizione.
A cura di Andrea Parrella
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Secondo la concezione generale di cantautorato radicatasi nel tempo alle latitudini italiche, si è spesso mal tollerata l'idea che temi di una certa complessità potessero viaggiare di pari passo a una forma espressiva atipica, non tradizionale e lontana dal concetto di seriosità. Da qualche anno, e in particolare con il primo album in studio del 2019, i Coma_Cose provano a inserirsi di diritto nella lista di quei pochi in grado di scardinare questo assioma, proponendo uno stile compositivo singolare e colto – influenze rap e hip hop in pacifica convivenza con atmosfere contemporanee non lontane dall'indie – che nulla ha da invidiare al cantautorato come contenuto, ma contemporaneamente stuzzica l'ascoltatore con giochi di parole, tranelli semantici, veri e propri rebus. Abbiamo incontrato Fausto e Cali allo Sziget Festival 2019, pochi minuti prima della loro esibizione, per capire meglio questa natura "enigmistica" delle loro produzioni.

Suonate a uno dei più grandi eventi musicali d'Europa, forse al mondo. Che impressione vi ha fatto lo Sziget?

Non ci eravamo mai stati ed è incredibile la massa di proposte che puoi trovare. Al di là dei concerti, tutta la mole di cose che si possono fare è incredibile.

La cosa più folle? Dopo quante ore avete visto la prima persona nuda? 

C'era gente nuda? (chiede ingenuamente Fausto, ridendo quando si sente dire che è il minimo sindacale, ndr).

Passiamo all'aspetto creativo, perché vorrei condividere una cosa con voi: ascoltarvi mi trasporta spesso in una dimensione simile a quella che si prova quando si osservano quei dipinti in cui puoi vedere due immagini diverse ma tra loro dissociate, impossibili da percepire contemporaneamente. Così i vostri pezzi, ascoltandoli pensi di essere sul punto di completare il puzzle semantico e di colpo arriva uno schiaffo con questi rebus linguistici che cambiano la frequenza. Vi ritrovate in questa descrizione?

Assolutamente sì, si tratta di un caldo-freddo che cerchiamo. È voluta l'idea di viaggiare su due codici, uno più di superficie che arriva subito, l'altro in cui sondiamo una profondità più concettuale, in cui puoi leggere altre cose, che comunque non sono poi così complesse. Questa doppia lettura esiste sempre, è una costante del nostro stile compositivo.

Da dove nasce questo impulso?

Abbiamo voglia di sparigliare le carte, nel senso che l'esigenza di questo progetto nasceva anche dalla sensazione di trovare nulla che fosse così simile a un effetto ‘zapping'.

Zapping è una definizione interessante. Inoltre penso che questo stile ‘intermittente' nasca anche dalla volontà di manifestare un diritto al disimpegno. Raggirate l'ascoltatore attirandolo in una specie di trappola, per poi beffarlo. Un po' come se rivendicaste il proverbiale "diritto alla cazzata" di tognazziana memoria.

Sì, non siamo lontani da quello che dici. Spesso la regola è che si skippa (cambia registro, ndr) a metà canzone e noi ci siamo sempre chiesti perché dovesse essere necessariamente così: perché non fare musica che si auto-skippi? Puoi farlo coi suoni, ma puoi farlo anche coi testi, ti dico una cosa con una strofa e non ho necessità di continuarla in quella successiva.

Un rigoroso della forma canzone tradizionale potrebbe ritenerlo un errore…

Può essere certamente ritenuto un errore, ma è una cifra nostra e non è una provocazione: la scelta è assolutamente spontanea.

Vi percepite come qualcosa di nuovo sulla scena musicale attuale?

Più che altro nel fare canzoni cerchiamo di fare qualcosa di nuovo per noi. Cerchiamo sempre di inserire variazioni, sia dal punto di vista sonoro che metrico. Quindi sì, non so in che modo venga percepita all'esterno, ma uno dei cardini delle nostre produzioni è l'intento di fare qualcosa di innovativo, è ciò che attrae noi e credo sia ciò che attrae tutti, tendenzialmente.

Il titolo dell'album, Hype Aura, nasconde dietro a un gioco di parole un riferimento chiaro a un sentimento che sembra declinare il tempo in cui viviamo. E non è la sola volta in cui la paura viene citata nei vostri pezzi. Come vi rapportate all'idea che oggi il terrore paia offuscare qualsiasi parvenza di raziocinio?

La paura secondo noi fa parte di quei sentimenti che si vivono ogni giorno, saremmo ipocriti a dire che non si abbia paura dell'ignoto o di ciò che non si conosce. Nel nostro caso, la nostra musica non si intitola il diritto di farsi portatrice di un concetto così complesso, non vogliamo descrivere cosa la paura sia. Raccontiamo la nostra di paura, nell'unico modo che ci è congeniale, che è anche quello dell'autoironia, attraverso la quale esplicitiamo i nostri sentimenti. Prima di questo disco vivevamo una paura per l'ignoto, per ciò che saremmo stati, ed è in parte quello che abbiamo provato a raccontare.

Commessi nello stesso negozio di abbigliamento, quindi complici nella vita e nel percorso artistico. La storia della nascita dei Coma_Cose è sicuramente insolita ed ha una sua specificità, ma ho come l'impressione che interessi più alla stampa come esca per agganciarvi a qualcosa, che al racconto quotidiano che fate di voi, nella musica e ad esempio sui social. Siete d'accordo? 

Sì, è così. Diciamo che all'inizio puoi sentire la necessità di raccontare il tuo passato per far capire chi sei, ma per quel che riguarda la nostra comunicazione sui social, che siamo noi a decidere, la viviamo giorno per giorno e non abbiamo una programmazione in termini di contenuti. Poi siamo sempre insieme e viene automatico parlare di ciò che facciamo, anche se si potrebbe sempre fare di meglio.

Ho notato che siete particolarmente parsimoniosi in fatto di live. Voglio dire che, pur essendo questo il vostro anno, ho come l'impressione che centelliniate le esibizioni dal vivo. Mi sbaglio, oppure è così e c'è una ragione particolare?

Abbiamo fatto molte date l'anno scorso, più o meno 70, tra locali più piccoli e festival vari. Quest'anno, invece, avendo cambiato tipo di spettacolo e avendo un certo tipo di produzione, siamo obbligati a fare locali più grossi e questo presuppone farne di meno. Se fai uno spettacolo più grosso la cosa comporta spostamenti diversi, più persone impiegate e un palco più importante. Se per organizzare una data si spostano 20 persone, diventa più complesso.

Dopo lo Sziget quali tappe prevede il tour estivo?

Faremo una data in Toscana, in Versilia, poi ad Asti il Controfestival, poi Ecosuoni in Campania.

Ultima cosa, poi vi lascio perché fra 35 secondi circa sarete sul palco. "Il mio artista rap preferito è De Gregori" è uno dei passaggi cruciali del vostro repertorio ed è noto il vostro apprezzamento per lui. Ma ci sono due pezzi, "Squali" e "Pakistan" (precedente all'album "Hype Aura") con un legame particolare, l'esplicito riferimento a "Rimmel". Come mai questo pezzo specifico è così ricorrente?

Non è affatto casuale. Quella canzone quando uscì fu criticata perché non voleva dire nulla in apparenza, è un cut di tantissime cose che ti chiedi "perché?". Poi pian piano prende una forma e una semantica che ti costruisci nell'ascolto. Quando noi parliamo di De Gregori come nostro artista rap preferito non lo facciamo per infastidire o sfidare qualcuno, ma intendiamo proprio questo genere di tecnica, un'idea di flusso di coscienza messo in metrica, raccontando qualcosa che prende forma, diventando nuovo. Quella canzone, che è una delle più note, ha avuto su di noi grande influenza.

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