C’è una splendida notizia per quanti apprezzano la canzone d’autore più raffinata e seducente, sospesa in una dimensione onirica ed evocativa dolcemente scossa dalla malinconia: fra una settimana esatta, ovvero il 21 gennaio sarà in circolazione il nuovo album dei Non voglio che Clara. Per la compagine veneta, anche titolare di varie produzioni minori, è la quarta prova sulla (più o meno) lunga distanza, a circa quattordici anni dall’inizio dell’avventura e a tre abbondanti da quel “Dei cani” che secondo logica avrebbe dovuto affermarla concretamente ma che, invece, è riuscito “solo” ad ampliarne un po’ il bacino di utenza. Ha senso sperare che il passo decisivo avvenga con “L’amore fin che dura”: l’accordo con un’etichetta al centro dell’attenzione come la Picicca di Brunori Sas e il momento storico palesemente favorevole a sonorità grossomodo affini – Baustelle, Colapesce, Perturbazione… – potrebbero finalmente fare la differenza e portare il quartetto guidato dal cantante/pianista Fabio De Min a una meritata visibilità in ambiti meno di nicchia di quelli del solito underground.
Contraddistinta dalla cura maniacale per gli arrangiamenti, all’insegna di una morbida classicità che peraltro non disdegna contaminazioni con l’elettronica e occasionali vampate di energia, la formula del quartetto completato dal chitarrista Marcello Batelli, dal bassista/tastierista Martino Cuman e dal batterista Igor De Paoli ha come principale elemento distintivo la voce del frontman: sussurate, calde e cariche di un’enfasi suggestiva e mai troppo ostentata, le performance di De Min ammantano di ulteriore fascino i racconti nostalgici e cinematografici (teatrali?) di testi dal respiro letterario, contribuendo in modo sostanziale alla definizione di un’estetica musicale dal sapore antico ma non per questo antiquato. Piuttosto, priva di una precisa collocazione spazio-temporale (la “dimensione onirica” di cui sopra), non per fuggire dal presente e rifugiarsi nel passato, bensì per recuperare e preservare tradizioni gloriose.
Nelle note-stampa del secondo CD, il gruppo indicava come suoi numi tutelari “Luigi Tenco, Phil Spector, Scott Walker, Burt Bacharach, Smiths e Beach Boys” e, insomma, non è che le cose siano oggi cambiate radicalmente: si registrano un’accresciuta maturità e una maggiore consapevolezza dei propri mezzi, che inducono a definire “L’amore fin che dura” – ma quanto è rivelatore di un mondo, quel “fin che” al posto di “finché” – il disco più riuscito e significativo dell’ensemble, ma le coordinate di base rimangono le stesse. Dai Sixties a certi ‘80, dal disincanto alla solitudine, dalla generica insoddisfazione esistenziale al desiderio di celebrare – con discrezione – le piccole, grandi gioie che la vita comunque offre, tutto concorre a dipingere (o affrescare?) un immaginario intensissimo, che evita la volgarità dei colori sgargianti a favore di toni più sobri e magari lividi ma che, senza rinunciare alle sfumature, cerca la nitidezza del tratto.
Quasi un concept, o una suite in dieci movimenti, l’ultima fatica dei Non voglio che Clara può essere a ben vedere sintetizzata da un verso della title track: “L’amore è fin che dura / poi resta la paura”. Non proprio gioioso, ma sempre meno drammatico di quel “approfittando di tutta questa felicità / ho deciso di morire” che chiude “La caccia” e i trentacinque, densi minuti della scaletta. Sono fatti così, i ragazzi, ma non rendono tristi: semmai, confortano, facendo sentire meno soli.