Con alle spalle quindici anni di carriera ufficiale, il cui inizio si può fissare all’uscita per la gloriosa Gamma Pop del 45 giri – squisitamente adolescenziale già dal titolo – “I’m In Love With Someone Older Than Me”, i Julie’s Haircut sono un’autentica istituzione del rock indipendente di casa nostra. Un percorso ben poco lineare, quello della band di Sassuolo, costellato di avvicendamenti attorno ai fondatori Nicola Caleffi e Luca Giovanardi, documentato da un considerevole numero di dischi (sei album, oltre una dozzina fra singoli ed EP) e contraddistinto da una formula mai statica e in perenne evoluzione, tanto che confrontando il primo lavoro di lunga durata – “Fever In The Funk House”, del 1999 – e l’ultimo “Ashram Equinox”, pubblicato da undici giorni con il marchio Woodworm/Santeria, è quasi impossibile credere che si tratti dello stesso gruppo.
Del ruvido e stralunato punk-pop’n’roll non è rimasta infatti neppure una lontana eco nei quarantadue minuti – legati assieme in un unico, ipnotico flusso – di un’opera elaborata, la cui concettualità è sottolineata dalla scelta di confezionare otto videoclip, uno per ciascuna traccia, “facendo ricorso a materiali d’archivio reperiti online su temi come l’uso delle droghe, il controllo delle menti, la sessualità, il fanatismo religioso”. Il primo, “Ashram”, è stato posto in circolazione lo scorso 10 ottobre, seguito il 15 da “Tarazed” e il 17 da “Johin”; tutti gli altri, da “Taarna” a “Han” passando per “Equinox”, “Sator” e “Taotie”, saranno diffusi in rigoroso ordine di scaletta nelle prossime settimane, andando così a completare il “mindscape journey” – nel senso di viaggio panoramico da effettuare con e per la mente – annunciato dall’efficace slogan promozionale. Un obiettivo molto “artistico” e ambizioso, di sicuro in sintonia con quanto creato dai ragazzi emiliani nella seconda metà del decennio scorso ma non per questo meno sorprendente in termini di progettualità, maturità, equilibrio, forza espressiva, persino qualcosa di assimilabile al coraggio.
Non è una raccolta di canzoni tradizionalmente intese, “Ashram Equinox”, e non solo perché la voce – le rare volte in cui c’è – è utilizzata come uno strumento. È, invece, una sorta di colonna sonora immaginaria che punta ad avvolgere l’ascoltatore in un magma ritmico-melodico dai colori cangianti, un affresco evocativo-suggestivo in cui l’incontro fra rock ed elettronica genera insoliti e fascinosi ibridi non privi di aromi misticheggianti. La visione dei Julie’s Haircut, che tra abiti bianchissimi e pose enigmatiche sembrano volersi proporre come officianti di un rito, rientra insomma alla perfezione nell’alveo della psichedelia. Nulla a che vedere con i Sixties, poiché gli agganci più evidenti sono semmai con il krautrock e con quel post-rock che ne è diretta progenie, ma non c’è dubbio che la centrifuga del quintetto, nella quale confluiscono tocchi di sapore jazz, occasionali accenni minimalisti e sfumature filoetniche vanti velleità espansive.
Non sarà la chiave delle famose porte della percezione – William Blake o Aldous Huxley? Che ognuno opti per la risposta che più gli aggrada – né una formula alchemica fino a oggi mai sperimentata, ma la suite di “Ashram Equinox” si attesta su un livello estetico e comunicativo superiore a quelli di tanti apprendisti stregoni che in tutto il mondo si illudono di aver trovato la pietra filosofale e per di più si espongono, vantandosene, a sacrosanti sberleffi. A questi Julie’s Haircut si potrà forse contestare l’approccio appena troppo algido e “scientifico”, ma intanto quello che gli brilla in mano è proprio oro.