Mai avrei pensato di scrivere, un giorno, dei Modà, che a mio pur discutibilissimo parere sono, musicalmente parlando, Il Male, quello con le iniziali maiuscole. La colpa è tutta di poche righe postate qualche giorno fa sul mio Facebook, scritte senza starci a pensare più di tanto, subito dopo aver ricevuto un comunicato-stampa relativo al raddoppio del prossimo concerto milanese: “La notizia che i Modà abbiano ’dovuto’ aggiungere una seconda data a San Siro perché la prima del prossimo 18 giugno era già sold out rafforza ulteriormente la mia già solidissima opinione che la razza umana meriterebbe di estinguersi. Cioè, i Modà… quelli che istantaneamente fanno sembrare i Negramaro i Beatles del ‘White Album’. Mestizia e raccapriccio”. Un commento magari pungente ma innocente, che non ha nulla a che vedere con i soliti, frusti luoghi comuni del “musica seria vs musica leggera”; certe crociate sarebbero ridicole se fossi un pischello appena uscito dal liceo, figuriamoci alla mia veneranda età e con l’esperienza maturata sul campo in decenni di giornalismo legato al rock, al pop e a tutto quello che gli gira attorno. Insomma, per spiegarmi meglio: ritengo perfettamente normale che un gruppo come i Modà, privo di qualsivoglia pretesa artistica e perfetto per tutti coloro che associano l’idea di canzone all’entertainment più disimpegnato e sdolcinato, abbia successo. Va in questo modo e in questo modo è sempre andata; nessuno lo ammette, ma la platea di massa prova per la musica insignificante, sciocca e povera di contenuti, per i cinepanettoni di Neri Parenti e per i libri di Fabio Volo un’autentica attrazione fatale.
Tutto chiaro, allora? Che i Modà piacciano a tanti è logico. Un po’ più strano, invece, è che piacciano a così tanti da riempire per due serate consecutive San Siro, o da vendere nelle prime ventiquattr’ore quindicimila esemplari del loro ultimo album “Passione maledetta”. Buon per loro, naturale, perché magari – non lo so, non li conosco – sono bravissime persone, benché nel mio mondo la legge dovrebbe proibire a un personaggio pubblico quasi trentottenne di farsi chiamare Kekko, con tre “k”, come un qualsiasi post-adolescente che non vuole crescere (ooops, "krescere"); dal mio punto di vista, il loro torto è proporre musica che a me (e non solo: il post su Facebook di cui sopra ha collezionato 1325 “like” e 178 condivisioni) fa sembrare simpaticissimo un Toro di Falaride, ma il troppo stroppia e chi fa il mio lavoro non può non porsi la fatidica domanda: “Perché proprio loro?”. La risposta è ben nota a chiunque sia “dell’ambiente” o si voglia prendere la briga di informarsi e fare due più due. Dalla nascita nel 2002 fino alla fine del decennio, i Modà erano un ensemble di moderate ma non irrilevanti fortune, che nel giro era poco calcolato o al massimo bonariamente deriso per due aspetti: il nome, tra i favoritissimi in un eventuale contest dei più orrendi della storia (è ispirato da quello di una discoteca di Erba; mi scusino gli abitanti del centro brianzolo, ma come non pensare a “Cateto” di Elio e le Storie Tese?), e la tendenza a ricalcare, annacquandola, la formula dei sicuramente più dotati – mentre lo scrivo rabbrividisco, ma l‘obiettività innanzitutto – Negramaro. La loro dimensione era quindi quella di “outsider” del pop impegnati in una dignitosa routine a base di dischi e tour, e quella sarebbe dovuta rimanere. Però, con già tre lavori all’attivo, nel 2009 i (più o meno) ragazzi conobbero il loro poi manager Lorenzo Suraci, anche presidente dell’emittente RTL 102.5, con conseguente promozione martellante via etere dei primi nuovi singoli; e, nel 2010, ancora Suraci fondò assieme ai presidenti di Radio Italia e RDS l’etichetta discografica Ultrasuoni, che accolse immediatamente sotto la sua ala il quintetto lombardo e riuscì con minime difficoltà a farlo concorrere al Festival di Sanremo del 2011. Da lì in avanti, grazie al secondo posto del brano “Arriverà” e al trionfo in classifica del quarto album “Viva i romantici”, per la band iniziò il momento d’oro che continua ancor oggi, sostenuto e amplificato da un battage radiofonico (con relativo indotto) a dir poco impressionante. Tutto lecito, beninteso, ma a me l’idea di tre potentissimi network che trasmettono a spron battuto un gruppo che incide per la loro etichetta – per non dire delle edizioni musicali, appartenenti alla Baraonda, di proprietà di… dai, su, non è difficile – pare una faccenda non bellissima, una sorta di diabolico piano di lavaggio del cervello a scopo di lucro/potere.
Però, qualcuno lo sa, io sono solo un povero fesso idealista, che addirittura prova disagio quando sente/legge qualche suo collega riferirsi ai Modà come “grandi artisti”; se almeno lo facessero per una mazzetta potrei anche (pur deplorandoli, eh) capirli, ma la cosa agghiacciante è che lo fanno per inerzia, per abitudine alla genuflessione. Perché i Modà non sono “grandi artisti”, bensì mestieranti bravi solo a frullare stereotipi sonori e testuali che sono stati miracolati da un incontro fortuito con un abile businessman. Sono un prodotto di consumo, anche ben confezionato per i canoni della categoria merceologica alla quale appartiene, ma non arte. Occhio, ad affermare certe amenità: a ciascuna di esse segue inevitabilmente il crollo di un monumento millenario, l’incenerimento casuale di un quadro di Van Gogh, la distruzione di un prezioso manoscritto.
Va da sé che, per fortuna, il successo nel pop non è una scienza esatta; in tal caso, il giochino che ha tanto ben funzionato con i Modà sarebbe stato replicato con altri protetti della scuderia Ultrasuoni, a partire da quella Bianca Atzei che al momento, nonostante i tentativi per imporla, rimane una carneade il cui cognome si presta a buffi calembour. E dunque, sì, sto dicendo che Kekko e compagni qualche dote più della concorrenza devono averla per forza. Perché una cosa è non cambiare stazione quando alla radio si ascolta una melodia accattivante o impostare una scaletta su Spotify, e un’altra assai diversa è metter mano al portafogli per l’acquisto di un CD o del biglietto di un concerto. Non essendoci speranze che c’entrino la lunga gavetta, il saper usare degli strumenti o essere un bravo cantante (per il mio gusto la voce del Kekko è come una morsa stretta attorno alle gonadi, ma questo è un altro discorso), tutte qualità alle quali notoriamente il pubblico “generico” non bada, né che l’appeal dipenda da requisiti estetici (il Kekko è un tipo normale, mica il sosia di Keanu Reeves o Johnny Depp), proprio non so che pesci pigliare per giustificare la portata del fenomeno. Eppure, per provare a scoprirlo, mi sono inflitto una playlist di sessantasette brani dei Modà, e se non ho cercato di suicidarmi buttandomi dalla finestra è stato solo perché, abitando al terzo piano, l’obiettivo rischiava di non essere conseguito.