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L’Eco di sirene di Carmen Consoli: “Faccio la musica che mi piace perché non vivo di questo”

Carmen Consoli ha appena terminato di presentare in giro per l’Italia il suo nuovo album live “Eco di Sirene”, in cui rilegge alcuni dei suoi successi. Abbiamo incontrato la cantantessa per farci raccontare questo nuovo lavoro e cosa significa rallentare.
A cura di Francesco Raiola
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Il bicchiere d'acqua si prende prima o dopo i caffè? Parte così la chiacchierata con Carmen Consoli, in giro per l'Italia a presentare il suo album live "Eco di sirene". Prima, concordiamo, altrimenti è offensivo, vuol dire che non t'è piaciuto. Insomma, vale sia a Napoli, dove ci troviamo, che a Catania, città natale della cantantessa che sta girando l'Italia suonando live i due inediti e tre pezzi come "Parole di burro", "Amore di plastica" e la più recente "‘A finestra", diventata un piccolo classico. La discussione ci porta anche alla caponata (agrodolce?), ma i tempi stretti ci portano alla genesi dell'album del bisogno di rallentare e cercare la felicità, fino alle difficoltà di sostentamento con la musica e al concerto che terrà l'1 giugno a Catania (accompagnata da una band di 12 elementi) e con cui cercherà di aiutare un'associazione che rischia di perdere la villa in cui ha costruito un'oasi felice per un po' di ragazzi diversamente abili. Prima, però, una curiosità che avevo da quando, sempre a Napoli, durante "In bianco e nero" la gente dopo il verso su "Una raggiante Catania" ha urlato come si sente ne "L'anfiteatro e la bambina impertinente", primo live dalla cantante pubblicato nel 2001.

Senti, prima di tutto devo levarmi una curiosità: ovunque vai, appena canti “di una raggiante Catania” (da "In bianco e nero") il pubblico esplode come nel live de "L'anfiteatro e la bambina impertinente"?

Sì, devo dire che il pubblico esulta anche a Londra e a Berlino e allora mi chiedo: ‘Ma ci sono così tanti catanesi?', no in realtà vogliono dirmi che hanno visto Catania e gli piace.

Quando hai deciso che Eco di Sirene doveva diventare anche un album?

Inizialmente doveva essere un esperimento, volevo andare in tour con un mini orchestrina da camera, ma mini mini, non volevo un quartetto, era troppo scontato: la scrittura di quartetto è una scrittura che dà a ogni strumento una parte molto precisa in quel range, invece due archi con una chitarra è molto rischioso, devono sconfinare ognuno nel campo dell'altro e insieme devono intrecciarsi cercando di riempire il più possibile i vuoti – che sono tanti – perché oltre a loro c'è solo una chitarra e nient'altro. Insomma, era una sfida, dovevano essere nove date per evocare il silenzio, il minimalismo, il fatto che una canzone anche nuda può avere una sua forza. Certo, abbiamo rischiato di far addormentare la gente, infatti noi ci dicevamo, scherzando, ‘Prendetevi un buon caffè, prima di venire al concerto', poi, però, da nove date sono diventate 60 e questa cosa è stata premiata da un pubblico eccezionale, nonostante fosse un concerto fuori dalla moda.

Mi piace anche l’idea che hai del fuori moda, in un momento in cui pare che la moda, nella musica e nel pop, siano fondamentali. Che significa precisamente essere fuori moda per te? E quali sono i vantaggi?

Sì, anche se nella musica di oggi, che sento in radio ci sono cose belle, cose che mi divertono, oltre a darmi anche una misura di quello che sta succedendo. C'è tutta una scena indie che sta venendo fuori a contrasto di tante cose…

Anche dalla tua Sicilia, tra l'altro…

Sì, vero, tante.

E quindi qual è la forza dell'essere fuori moda?

È concedersi il tempo di parlare più del dovuto, fuori dalla lunghezza di un tweet: oggi deve essere tutto breve, tutto sintetico, schematico, tutto un titolo, mai il contenuto. Quindi diventa molto difficile raccogliere tutto quello che tu vuoi dire nello slogan e se vai oltre c'è il disturbo dell'attenzione di chi ti ascolta, che non ti registra più. Essere fuori moda significa dilungarsi, godersi un caffè, una chiacchiera con una persona, non ottimizzare necessariamente, non credo che questo e l'ottimizzazione del profitto siano esattamente un segnale di evoluzione, ho paura che abbiamo dimenticato da qualche parte l'umanità, l'empatia, tutte cose che fanno perdere tempo. Certo, anche la gravidanza fa perdere tempo, sono nove mesi, non c'è modo di farla diminuire perché tempo denaro [sorride, ndr]. Non so quanto sia umano questo sviluppo tecnologico e quanto possa corrispondere a uno sviluppo umano: insomma, se vuoi essere fuori moda devi essere un po' più umano, meno programmato.

A questo proposito una cosa che mi colpisce di te è questo stare al di fuori di una serie di meccanismi che non saprei come definire. Questo stare al confine, non esserci sempre, ecco, in pace anche con l’idea del rallentare… È stata una necessità o semplicemente una cosa naturale?

Io faccio quello che mi piace, mi è stato insegnato questo dai miei genitori, al di là di quanto possa fruttare, però se fai quello che ti piace sei felice. Mio padre fece quello che gli piaceva, lasciando perdere occasioni anche più importanti, ma lui scelse di fare ciò in cui credeva e diceva: ‘E io cosa ci concludo a guadagnare tre volte tanto e poi spendere i soldi nei medicinali, perché mi deprimerò e mi ammalerò facendo una cosa che non  sento di fare'. Quindi, ti dirò, faccio tantissime cose, faccio la musica che mi piace, non mi basta per sostentarmi, perché non vado in radio, non vendo quanto dovrei vendere per sostentarmi, e allora faccio altre cose: gestisco case vacanza, sono imprenditore agricolo, produco olio, sono tutte le cose che ho ereditato da mio padre, e con mia madre gestiamo tutte queste cose e ti dirò, riesco a campare e ad essere libera. E siccome ho un altro lavoro, se faccio la musica faccio quello che mi piace. Se quello che faccio non mi piace, non c'è motivo per cui debba farlo, molto semplice.

Ascoltavo "Tano" e mi ha colpito il fatto, come avvenuto anche con "‘A finestra", che è come se adesso il siciliano ti fosse più consono per raccontare quel mondo là: arcaico, sbagliato, maschilista. Per raccontare le storture, ecco. È solo un'impressione?

In realtà uso il siciliano quando voglio raccontare una cosa fuori moda. "Tano" è un pezzo d'altri tempi, anche la melodia, la musica, sembrano una cosa degli anni 50. Mi sono divertita a pensare a un Tano degli anni 50 che fa quello che vuole: "Passame el sale", "È scondita, portami il sale", "Stirami sta cammisa" [dice in siciliano, ndr], questo comportamento era lecito e lo era anche inveire contro la moglie e ucciderla, per esempio, nel caso lo avesse tradito, c'era un diritto che garantiva tutto ciò. Oggi Tano non ce l'ha questo diritto, ma questo ti fa capire quanto le leggi e gli obblighi non servano a niente, perché Tano, benché non ci sia più una legge che lo tuteli, non solo ammazza la moglie ma fa fuori anche i figli: l'uomo Tano. Perché per sparare ci vogliono forza e coraggio, però il pezzo inizia con una cosa molto importante: dietro ogni uomo Tano c'è una madre che non smette mai di allattarlo, per la quale tutte le femmine ‘sò bottane!'. Quindi non è tanto una critica all'uomo biologicamente uomo, ma una critica alla subcultura un po' semplicistica e svilente del più forte che sovrasta il più debole.

Senti, sono stati annunciati un po’ di ospiti che saranno con te nell’evento catanese dell'1 giugno. Che ci racconti di questa giornata speciale?

Allora, tempo fa ricevetti una lettera da parte di Laura, una sociologa con un cuore grande e un corpo molto esile, che si dà da fare per dei ragazzi più abili di noi, però diversamente abili rispetto a noi e per molti aspetti superiori a noi – ad esempio ho sentito uno di questi ragazzi parlare di Freud – e lei con grande amore ha invitato questi ragazzi in questa villa che si chiama Namastè e si trova a Caltagirone. È un esempio italiano bello, solare, dove ci sono tanti volontari e in qualche modo si sostenta: molti di questi bambini sono stati abbandonati dai genitori, perché le loro abilità non appagano evidentemente il gusto e il cuore di questi genitori. Questa villa, però, è stata messa in vendita, benché fosse un paradiso per questi ragazzi che lì potevano vivere normalmente la propria condizione, realizzandosi in tante cose ed essendo utili per chi era sulla sedia a rotelle, per dire, insomma una funzione importante di ogni bambino ospite. Mi invitano, ma io mi chiedo cosa posso fare da sola, possiamo sensibilizzare, che ne so, ma qua dobbiamo concludere qualcosa, quindi mi sono detta ‘Se non ho i miei amici non ce la posso fare' e così ho chiamato tutti quelli che potevano venire e quelli disponibili sono venuti, e insomma il nostro obiettivo è comprare la casa per questi ragazzi o, almeno, avere un minimo per accendere questo mutuo e dare la casa a Namastè.

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