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Julio Iglesias e George Harrison usati da Pinochet per torturare i prigionieri

Uno studio rivela come Pinochet usasse canzoni famose, mandate a tutto volume, a mo’ di tortura. Tra queste ce n’era anche “Gigi l’Italiano” di Dalida. Ma la musica serviva anche ai prigionieri per affrontare la violenza.
A cura di Francesco Raiola
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La musica come arma a doppio taglio, soprattutto se parliamo di carceri e torture e in particolare se ci ricordiamo che oggi, 11 settembre, oltre a essere l'anniversario dell'attacco alle Torri Gemelle è anche il 40° anniversario del colpo di stato in Cile, che mise fine al Governo di Salvador Allende a favore di Augusto Pinochet.

La musica suonata a volume altissimo, infatti, era uno dei metodi di tortura usato dai militari cileni contro i prigionieri (ma sulla musica usata come arma di tortura nei campi di prigionia potete leggere anche questo bell'articolo del Guardian del 2008 o guardate questo documentario di Al Jazeera chiamato "Canzoni di guerra"). Stando a quanto raccontato dai prigionieri tra le canzoni mandate a tutto volume e in continuazione ci sarebbero "My Sweet Lord" di George Harrison, la colonna sonora di "Arancia Meccanica" o quelle di Julio Iglesias. Una ricerca sull'uso della musica nelle torture del dittatore cileno è stato svolto dalla dottoressa Katia Chornik dell'Università di Manchester che ha scoperto che tra le canzoni usate per accompagnare i prigionieri nella stanza della torture c'era anche "Gigi l'Amoroso", brano portato al successo da Dalida. Pinochet usava la musica – dice sempre lo studio – anche per indottrinare i prigionieri, usandola come forma di punizione, appunto, ma anche per farne una colonna sonora della tortura stessa.

Cantare per torturare ma anche cantare per salvarsi dalle torture. Alcuni prigionieri ricordano di aver usato piccole radio per ascoltare un po' di musica per farsi coraggio. Tra i brani c'erano "Without You" di Harry Nilsson, "Alone Again" di Gilbert O' Sullivan e "Morning Has Broken" di Cat Stevens. Ma anche cantare tra loro li aiutava e nei campi meno duri si potevano addirittura suonare degli strumenti e allestire degli spettacoli: "La musica univa i prigionieri perché era un modo per affrontare assieme quelle terribili sofferenze.

La dottoressa Chornik sta conducendo un progetto chiamato "Sounds Of Memory: Music And Political Captivity In Pinochet's Chile" ("I suoni della memoria: musica e detenzione politica nel Cile di Pinochet")

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