Esattamente due anni fa, “Tutte le canzoni” era stato un esordio fulminante, grazie al quale Il Triangolo si era affrancato dallo status di band conosciuta quasi solo nella sua area di origine – la provincia di Varese e al massimo la Lombardia – per mettersi in luce fra le ”next big thing” di quel rock nazionale che, pur mantenendo saldi legami con l'underground, sembra avere ciò che occorre per imporsi su scala più ampia. In occasione dell‘uscita scrissi di “pulsioni beat’n’roll secche e abrasive“, di “stacchi fulminei e non meno improvvisi break melodico-evocativi“, di “un dinamismo e una vivacità che coinvolgono e spesso travolgono", e non rinnego nulla: il primo album di Marco Ulcigrai (chitarra e voce), Thomas Paganini (basso) e Mauro Campoleoni (batteria) era ed è rimasto un autentico gioiellino a base di, mi si perdoni la seconda autocitazione, “vigore, fragranza, malinconie, morbosità e echi retrò”, non a caso apprezzato dalla critica specializzata e dal pubblico intervenuto ai numerosi concerti che gli fecero da corollario. Confezionare un secondo capitolo all‘altezza era, insomma, tutt‘altro che uno scherzo.
“Un‘America”, che sarà nei negozi dal 6 maggio ancora marchiato dalla Ghost Records, non solo conferma le doti dei tre di Luino, ma dimostra pure come essi abbiano fatto tesoro delle esperienze acquisite e siano cresciuti sul piano espressivo. Il songwriting più ricercato, gli arrangiamenti più ricchi e i testi più maturi non hanno però penalizzato il gruppo in termini di energia e di forza d‘impatto: benché sempre presenti, gli agganci ai Sixties e soprattutto al beat sono ora più sfumati, ma emergono comunque nitidi in un sound nel complesso più cattivo e colorato, seppure nel rispetto di una poetica di suoni e parole ben poco incline alla solarità e, anzi, per lo più velata di cupezza e non priva di toni solenni e (melo)drammatici. Il canto potente e nervoso è forse l‘elemento più personale, ma le tante peculiarità rendono la proposta de Il Triangolo, al di là delle vaghe assonanze con i Baustelle riscontrabili in un paio di brani lenti, una delle più caratterizzate del nostro panorama rock.
Accompagnato da un‘efficace copertina che strizza l‘occhio al cinema (da notare il richiamo a “C‘era una volta in America” di Sergio Leone), l‘album offre una scaletta un po‘ striminzita – appena nove tracce per ventinove minuti totali – ma di notevole qualità. Colpisce e sorprende subito, anche sotto il profilo testuale, l‘articolata “Icaro” scelta come pezzo apripista, ma ovunque si peschi lo si fa bene: dalle incalzanti “La playa“ e “Oradarada“ alla morbida e nostalgica “Avanti”, dall‘ossessiva “Con lei” alle ammiccanti “Varsavia“ e “Martedì di settembre” fino alla fantasiosa title track (bella pure la sua parziale “reprise” in chiave scarna posta in chiusura), “L'America” è un fascinoso collage di intensità e visioni, di melodie che sanno lasciare il segno, di suggestive tensioni, di trame che in modi diversi rimandano ai favolosi anni ‘60, di musica al contempo leggera e impegnat(iv)a. Dalle prime date promozionali fissate a maggio, non dimenticando l‘attesa tappa del 7 giugno al festival milanese “Miami“, ci si attende ora soltanto un ulteriore passo in avanti a livello di riscontri: perché sul fatto che Marco, Thomas e Mauro siano una delle migliori band “giovani” – l‘età media è di ventisette anni – oggi attive in Italia non possono più sussistere dubbi.